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“Abbiamo il dovere di conoscere quello che accade dentro l’aula del processo Aemilia” perché soltanto così “possiamo far sì che quello che è accaduto in Emilia Romagna non accada più, possiamo scegliere da che parte stare rifiutando di scendere a compromessi con queste persone”: “dobbiamo essere antenne sul nostro territorio”.
A chiedere questo impegno contro il sistema criminale mafioso sono Margherita Asta e Filippo Palmeri sabato pomeriggio a Bondeno durante l’incontro “La mafia uccide, il silenzio pure: la voce di tutti per una cultura della legalità”. Tanti sono gli elementi comuni nelle loro storie: entrambi sono originari di Castellamare del Golfo in provincia di Trapani, entrambi vivono ora in Emilia Romagna, Margherita a Parma dal 2010 e Filippo a Bologna dal 1987, infine entrambi sono famigliari di vittime di mafia e in entrambi i casi a causa di un destino crudele che ha voluto che i loro cari si trovassero al momento sbagliato nel posto sbagliato.

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Margherita Asta e Filippo Palmeri

La storia di Margherita forse è la più conosciuta delle due: la mattina del 2 aprile del 1985, poco dopo le 8:35 l’auto con a bordo sua madre Barbara e i suoi fratellini, Giuseppe e Salvatore, fa da scudo a quella del sostituto procuratore Carlo Palermo, che si sta recando al palazzo di Giustizia di Trapani. È a lui che è destinata l’autobomba che, come ripete Margherita, “ha ridotto a brandelli” sua madre e i suoi fratelli. Lei non c’è perché quella mattina per andare a scuola ha chiesto un passaggio a una vicina; la zia le racconta che la mamma e i fratellini “sono volati in cielo per un incidente”. Solo tornando a casa dai funerali, quando passa dal luogo dell’attentato, si rende conto che a portarle via i suoi cari non è stato un incidente, ma la violenza della mafia: “ho visto il profilo di una casa con la macchia rossa del loro sangue; anche oggi quando vado a Pizzolungo per le commemorazioni e passo per di lì per me è come se quella macchia fosse ancora su quel muro”. Dopo 31 anni “non so ancora, o so solo in parte, chi e perché voleva la morte di Carlo Palermo, perché non c’è ancora una verità giudiziaria”, afferma Margherita. Gli esecutori materiali, arrestati nel 1987, sono stati prima condannati e poi assolti in appello e in Cassazione, mentre nel 2002 Salvatore Riina, e Vincenzo Virga sono stati condannati come mandanti, ma “nella sentenza c’è anche scritto che la mafia pensava di fare un favore a qualcun altro”, denuncia Margherita chiedendo il coraggio di una maggiore chiarezza.

Filippo fa l’imprenditore, è il figlio di Gaspare Palmeri, guardia forestale, “assassinato dalla mafia il 18 giugno 1991”, scandisce. Filippo vive a Bologna dal 1987, ma non ha ancora perso il suo accento siciliano, forse il segno più tangibile del fatto che lasciare la propria terra è stata una scelta obbligata: “avevo una piccola impresa edile e avevo subito intimidazioni, mi sono trasferito perché dovevo decidere da che parte stare e non ho voluto cedere, ho fatto la valigia e sono partito”. Quel giorno di giugno Gaspare era andato a vedere una partita di calcetto con dei colleghi, fra i quali anche uno che non conosceva, mentre tornavano sulla strada per Alcamo hanno visto del fumo e la macchina ha rallentato, poi “cinque minuti di inferno”: un vero e proprio agguato mafioso. Filippo, per sapere la verità sul perché suo padre sia morto quella notte, ha dovuto aspettare il 2003 quando la corte d’assise di Palermo, dopo le rivelazioni del pentito Gianni Brusca, ha stabilito l’innocenza di tre dei presenti quella notte, vittime nella guerra dei Corleonesi: l’unico obiettivo era l’unico collega che Gaspare non conosceva, Domenico Parisi, cognato del latitante Lorenzo Greco. In quei dodici anni però lui e la sua famiglia sono stati additati a Castellamare come collusi con i mafiosi, come gente che se l’era andata a cercare. Ecco perché non è mai riuscito a raccontare la sua storia e quella di suo padre: solo dopo aver conosciuto Margherita e l’associazione Libera “mi sono aperto” e “dopo 21 anni ad alcuni studenti di Cento per la prima volta ho raccontato, prima non avevo la forza perché per me è come rivivere ogni volta quella maledetta sera”.

“Dire che la mafia è dappertutto non significa rassegnarci”, anzi secondo Margherita “significa che ognuno deve fare la propria parte perché la mafia colpisce tutti”: la memoria dei loro cari non deve essere un nome scritto su una lapide, ma deve avere gambe per camminare, “deve servire per farci indignare e dall’indignazione bisogna passare all’impegno per combattere l’indifferenza e la rassegnazione”.
Sul monumento dedicato a Barbara, Giuseppe e Salvatore sta scritto che “rassegnati alla morte non all’ingiustizia” attendono “il riscatto dei siciliani dal servaggio della mafia”. Quel riscatto in realtà deve essere compiuto da tutti noi cittadini: “abbiamo bisogno di conoscere la vera storia del nostro Paese e dobbiamo pretendere una giustizia con la G maiuscola” conclude Margherita.

Il processo Aemilia giorno per giorno: clicca qui

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Federica Pezzoli



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