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Il posto di Ferrara nell’agroalimentare: la vecchia regina vuol tornare a regnare
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Ferrara negli anni Sessanta è stata culla della frutticoltura italiana con i suoi 50mila ettari di frutteti. Mele Imperatore e Abbondanza e pere Passacrassana erano i prodotti più coltivati. E’ stato soprattutto lo slancio della produzione agricola a garantire al territorio la possibilità di emanciparsi ed evolvere. Il livello attuale di relativo benessere testimonia un passato importante, ma lo sviluppo a un certo punto si è arenato e si è vissuta una pesante fase di crisi e disinvestimenti.
Paolo Bruni, esperto del settore, presidente del Centro servizi ortofrutticoli di Ferrara e lui stesso produttore a Portomaggiore, riconduce le cause della depressione a tre ordini di fattori.
“Il primo è di contesto generale, relativo ai costi di produzione che nel nostro Paese sono più alti rispetto a molti competitori europei”. Questo ha generato per tutti indistintamente la difficoltà di reggere sul mercato dovendo fronteggiare una concorrenza in grado di praticare prezzi più convenienti per il consumatore.
“Il secondo problema deriva dalla difficoltà di fare aggregazioni garantendosi la giusta dimensione d’impresa. Per fare un esempio, mentre in Romagna per rispondere alla crisi i produttori si associavano o si consorziavano, a Ferrara è prevalso l’individualismo: non ci si aggregava per diffidenza, invidie, rivalità e la presunzione di avere capacità e competenze tali da poter fare da soli”. Così il motto ‘piccolo è bello’ a un certo punto si è ridotto a ‘piccolo e basta’: troppo piccolo per competere.
“E poi, terzo punto, la mancata integrazione fra i produttori ha determinato l’incapacità di internazionalizzarsi. Per uscire dalla crisi occorreva allargare gli orizzonti, aprirsi a nuovi mercati, ma in assenza di un consolidamento delle imprese è risultato impossibile effettuare gli imprescindibili investimenti in uomini, mezzi e ricerca”. Un peccato irrimediabile questo per un settore in fortissimo esubero produttivo. “Nell’ortofrutta l’Italia assorbe solo 9 dei 26 milioni di prodotti delle proprie aziende. L’export è quindi essenziale. A Ferrara in particolare, perché il territorio di riferimento assorbe in proporzione ancora meno rispetto alla media nazionale”.
Da qualche tempo però le cose stanno cambiando. E non è solo il segmento ortofrutticolo in fermento, è tutto il comparto agricolo provinciale che manda chiari segnali. “L’agroalimentare ferrarese si sta risvegliando – annuncia Bruni, uno che ha i radar al posto delle orecchie -. Si investe nelle filiere: quella del riso, dopo il colpevole abbandono del Delta del Po, è stata rilanciata anche grazie agli investimenti di Grandi Riso, con considerevoli estensioni produttive e strutture per il confezionamento del prodotto. Quello del Delta è un prodotto di qualità, al punto di essere esportato persino in Asia, dove il riso certo non manca, per il suo particolare pregio: il Carnaroli è l’eccellenza, ma non c’è solo quello. Poi, allargando l’orizzonte, vediamo che da qualche anno Bio Argenta è diventato produttore di livello europeo e il suo cuscus viene acquistato persino per le sagre siciliane”. Come se da Trapani ci vendessero la salama da sugo, insomma! Un fatto che ha destato clamore e ha accesso polemiche sui giornali isolani. Ma questo va a tutto merito dell’intraprendente azienda ferrarese. “E poi – aggiunge il Cavaliere della frutta – non dimentichiamo Conserve Italia: a Pomposa produce e lavora pomodori, piselli, fagiolini, pere, pesche e occupa oltre un migliaio di addetti. Il limite attuale è che Ferrara resta prevalentemente produttrice, ma non trasforma il prodotto. Va completato il ciclo e vanno realizzate le filiere per portare i prodotti dalla terra alla tavola”.
Anche perché la ricchezza si genera principalmente nella trasformazione del prodotto. “E’ proprio così – conferma Bruni -. ma i segnali positivi e incoraggianti ci sono: il rilancio di Sbtf, per esempio”. La Società bonifiche terreni ferraresi, fondata a Londra a fine Ottocento, con sede a Roma da decenni, è recentemente passata dalla Banca d’Italia che ne era proprietaria a un gruppo imprenditoriale che ha l’ambizione di farne un primattore di livello europeo soprattutto nel settore dei cereali e delle colture industriali. La prima mossa è stata trasferire la società a Jolanda di Savoia, proprio nel cuore di quelle aree ferraresi sottratte al dominio delle acque”.
E poi, sottolinea il presidentissimo, c’è l’imprenditore delle carni Cremonini che è tornato a investire nelle stalle e nell’allevamento, ci sono i progetti sulle erbe officinali della farmaceutica Dompé, c’è fermento nel settore ortofrutticolo. “La mia fiducia nel futuro del comparto agroalimentare, di cui Ferrara con Mantova, Brescia e Verona è un fiore all’occhiello, nasce da un’evidenza: il mondo avrà sempre più bisogno di cibo. Secondo la Fao il fabbisogno di derrate alimentari aumenterà del 70 per cento entro il 2050”.
“La popolazione in crescita costante – scrive in proposito l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – richiederà l’aumento della produzione mondiale alimentare”. Il che si traduce in “un miliardo di tonnellate di cereali e 200 milioni di tonnellate di prodotti d’allevamento da produrre in più ogni anno”.
L’Italia, data l’eccellenza del suo prodotto, “può soddisfare i mercati di nicchia, quelli appannaggio dei consumatori agiati. Si tratta di compratori di per sé già attratti dal nostro Paese perché apprezzano le caratteristiche organolettiche delle nostre produzioni e per la suggestione che l’Italia esercita a livello di immaginario collettivo. Tutto questo, unitamente al risveglio dell’interesse da parte dei giovani nei confronti delle professioni legate all’agricoltura, all’agroalimentare e più in generale dell’universo dell’alimentazione (oggi fare il cuoco per esempio è chic), certificato anche dall’aumento delle iscrizioni nelle scuole specializzate, genera fondate attese e fiducia nel rilancio del comparto”.
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Sergio Gessi
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