Esther Kinsky è l’autrice del romanzo ‘Hain’, ambientato anche a Ferrara e Comacchio, che sta avendo un’eco straordinaria fra i critici di lingua tedesca: tanto che, notizia di ieri, è stata insignita dell’importantissimo Deutscher Buchpreis 2018 (Premio di Letteratura tedesca 2018). Il testo sarà prossimamente disponibile anche in italiano. Pochi giorni fa, anche grazie al legame che sente con la città e il territorio estense, fra terra e acqua, ha accettato di rispondere ad alcune domande per Ferraraitalia.
E’ difficile definire il suo libro dal punto di vista letterario. E’ un romanzo, un libro di viaggi, un diario o un volume di racconti? Lei stessa lo definisce, nel sottotitolo, un “Geländeroman”. Come dobbiamo interpretare questa definizione e come possiamo tradurla in italiano, forse come romanzo del paesaggio’?
In tedesco potrei definire chiaramente la differenza tra Landschaft, paesaggio, e Gelände, terreno. Gelände è una parola più aperta, con più significati e forse potremmo renderla meglio con il termine luogo, ma ciò di cui sto realmente parlando è la lettura, l’interpretazione soggettiva di un luogo, che conserva tracce di qualcosa che è successo. In francese c’è l’espressione ‘recit‘ che, così come Gelände rispetto a paesaggio, è un termine più aperto. Per quanto riguarda il genere letterario, ogni volta che leggo la traduzione ‘romanzo’, tutto in me si ribella, anche se queste sono solo convenzioni.
Però bisogna ammettere che nelle tre parti in cui è diviso il libro viene raccontata un’unica storia che le comprende tutte e tre, si tratta quindi di un unico percorso, pur con sentieri e deviazioni, che si snoda attraverso i temi di perdita e lutto. Questo giustifica questa definizione di genere.
Sicuramente non è un diario e non sono neanche racconti. Piuttosto direi che nel libro ci sono temi fondamentali, strettamente uniti nelle loro motivazioni profonde più che in avvenimenti precisi. Gli uccelli, come l’airone per esempio, giocano un ruolo importante, e infatti il tema degli uccelli si dipana attraverso tutto il libro, così come quello delle necropoli.
Anche il titolo tedesco, ‘Hain’, non è facile da tradurre in italiano. Nei vocabolari troviamo il termine “boschetto”, ma questa parola esprime davvero il senso del tedesco Hain? Come mai ha scelto questo titolo, che fa pensare molto più al romanticismo che al neorealismo?
Hain è una parola antica, che non definisce soltanto un piccolo bosco, ma che richiama un’atmosfera legata a miti e rituali del passato.
Il libro ha come motto principale una citazione della ‘Grammatica filosofica’ di Wittgenstein, che esprime meravigliosamente il mio tema della lettura del mondo attraverso i suoi segni visibili, ed in questo tema si si infiltrano sicuramente associazioni con il romanticismo, le cui tracce mi interessano sempre.
Parlare di romanticismo tedesco crea sempre molta confusione, perché l’appropriazione borghese e reazionaria di questo termine, e la sua volgarizzazione, hanno sempre gettato una pessima fama su molti aspetti che sono invece rivoluzionari.
La traduzione “boschetto” mi piace però, anche perché la scena centrale della seconda parte del libro, la scoperta di piccoli uccelli morti, si svolge proprio in un boschetto. Nel mio immaginario in queste scene il boschetto di oggi si trasforma lentamente in quello antico, anche se forse non riesco a esprimere bene a parole questo concetto. Comunque per me non sussiste nessuna reale contraddizione tra romanticismo e neo-realismo.
In tutti i suoi libri, soprattutto nelle poesie, al centro dell’attenzione sono luoghi dimenticati e perduti. In poche parole: sembra che non le interessino i tramonti lirici, ma molto di più le atmosfere brumose. Ma, soprattutto, lei ha un occhio particolarmente attento ai cespugli ai bordi dei fiumi o delle ferrovie, alle zone industriali, in breve agli angoli ‘sporchi’, ai luoghi “con cui nessuno vuole avere niente a che fare”, per dirla con le sue stesse parole. E’ giusta questa interpretazione?
Sì, mi interessa molto di più ciò che è ai margini, rispetto al centro. Nelle città di oggi, con i loro centri supercontrollati e snaturati da una pesante massificazione tesa solo al profitto, si è sviluppata una dinamica per cui tutte le cose più interessanti sono state spinte verso le periferie, per questo i margini sono più interessanti del centro.
Io sono nata sulle rive di un fiume e i margini mi hanno sempre interessata, perché il fiume stesso è definito dai suoi argini, dai suoi limiti; attraverso la discontinuità dei suoi margini, lo specchio d’acqua diminuisce, aumenta, si libera, divora lo spazio; questa è una dinamica che sfida il controllo.
A me interessano luoghi che contengano tracce, come ho già accennato, ma che sviluppino anche una propria, peculiare vita. Direi che questo è il punto fondamentale.
Uno dei termini più importanti per me è diventato Gestörte Gelände, terreni disturbati, un termine mutuato dalla storia naturale, che definisce così quei terreni che sono stati sovrasfruttati dall’uomo, che presentano tracce di interferenze umane, ma che tuttavia lottano contro queste tracce, sviluppando una flora ed una fauna del tutto peculiari.
Naturalmente spesso accade che i terreni abbandonati siano anche l’unico rifugio rimasto a quelle persone per cui è andato perduto il diritto a un proprio, legittimo spazio.
Mi riferisco per esempio a un boschetto a est di Budapest dove si sono rifugiati i senzatetto, ma anche agli insediamenti provvisori dei Rom intorno alle grandi città, ai molti che sono senza più patria: non parlo solo dei senza tetto, perché l’essere senza patria è uno stato di emarginazione in sé e questo è quello che mi interessa.
I tre capitoli del libro prendono il nome da luoghi italiani: Olevano, nella provincia laziale; Chiavenna, nel Nord della Lombardia, direttamente al confine con la Svizzera; e Comacchio, nel Delta del Po a est di Ferrara. Cosa lega questi tre luoghi?
Sono tutti luoghi che svolgono un ruolo determinante in ogni rispettiva parte del libro. Olevano è la scena dominante nella prima parte, nella seconda Chiavenna è il punto di partenza dei ricordi, per questo volevo che fosse una città di confine. Comacchio è invece un luogo che non si sa se appartenga alla terra o all’acqua, uno stato di indefinizione per me essenziale nell’ultima parte.
Il luogo più significativo in realtà è Spina, che si trova nella prima parte, ma non volevo dirlo chiaramente perché si tratta di una necropoli e avrebbe dato a tutto il libro un’atmosfera completamente diversa.
Una parte del suo libro è dedicata anche a Ferrara e in una frase lei afferma che: “Ferrara non si fa capire troppo facilmente”. Perché per lei Ferrara è una città che non si fa capire facilmente?
Ferrara è per me una città piena di misteri, ha qualcosa quasi di ottomano, si ha la sensazione che dietro queste facciate si dispieghino mondi che a coloro che passeggiano per le strade rimangono completamente nascosti.
Quando passeggiavo per le strade di Ferrara, mi venivano in mente i film di Satyait Ray, quegli sguardi dalle finestre piccole, strette e perfino sbarrate che davano sulla strada, mi immaginavo addirittura che le persone guardassero me in questo modo, che mi vedessero come ‘la straniera’ che passava nel vicolo. È una città dai confini netti dentro e fuori, esattamente come nei film di Ray, dove tutto ciò che è esterno è straniero.
Sicuramente il mio sguardo sulla città è stato condizionato da ‘Il giardino dei Finzi Contini’, il romanzo di Giorgio Bassani, che è un libro pieno di misteri, ma devo anche dire che mi ha sempre interessata il fatto che Ferrara fosse la città italiana che a Goethe non era mai piaciuta. Si ha quasi la sensazione che nel suo ‘Viaggio in Italia’, Goethe avesse paura di Ferrara, naturalmente non lo ha mai ammesso, ma è tuttavia incredibile come egli si sia espresso contro questa città. Io credo che non l’abbia capita.
E spesso ho la sensazione che la gente del Nord Europa abbia bisogno, quando visita la Bassa Padana, dei tesori artistici e del significato culturale dei luoghi per riuscire a entrare in relazione con loro, mentre ha poco amore per questo paesaggio spesso nebbioso e nordico, con la malinconia della pianura che circonda Ferrara, mentre è proprio per questo che trovo questa città così affascinante, anche se dovrò visitarla ancora tante volte prima di riuscire a farle rivelare tutti i suoi segreti.
Ma va bene così, niente batte la curiosità insoddisfatta.
Nel capitolo che riguarda Spina lei scrive che qui ci si trova di fronte ad un “paesaggio, o all’assenza di un paesaggio”. Può spiegarci?
L’area intorno a Spina, questa terra strappata all’acqua, al Delta del Po, è fortemente segnata dall’intervento dell’uomo. Tutto ha qualcosa di molto funzionale, quasi brutale. Tutto il terreno è sfruttato, ma si percepisce che qui c’era qualcosa di originariamente diverso. Come un altro elemento. Quest’area non è ancora un ‘paesaggio’, direi, ma è sicuramente ‘un luogo’. Credo che a volte si perda troppo tempo a cancellare i segni del passato, mentre parallelamente se ne inseguono le tracce attraverso la meticolosa ricerca dei reperti archeologici. Questa, per lo meno, è la mia sensazione.
L’opera di Giorgio Bassani è citata più volte nel suo libro. Lei cerca, come tutti i turisti che si interessano di letteratura, il famoso giardino dei Finzi Contini e, come tutti gli altri, non lo trova. ‘L’airone’ assume addirittura un ruolo centrale nella sua esplorazione del Delta. L’opera di Bassani è significativa anche per il suo modo di scrivere?
Io ammiro la scrittura di Giorgio Bassani: ha una tale sintonia con la gente, una tale comprensione per i dilemmi umani che mi coinvolge sempre. Al tempo stesso i suoi sono anche romanzi e racconti storici: nessun trattato sul giudaismo tra le due guerre mondiali mi ha insegnato tanto quanto ‘Il Giardino dei Finzi Contini’ e nessun saggio sul dopoguerra in Italia tanto quanto ‘L’airone’ di Bassani.
Per me ‘L’airone’ è forse il testo più importante di Bassani, perché sono gli elementi che colpiscono i sensi a dominare la scena: i colori del cielo, l’odore dell’aria, è tutto un mondo di sensazione e ricordo, un dramma straordinario che si svolge contemporaneamente nei pensieri e nel corpo.
Come lettrice ho quasi la percezione che tutto il Delta del Po scorra dentro di me, che la lettura stessa si impadronisca di me ogni volta, ancora e ancora.
Questo mi fa sentire in sintonia con Bassani, ogni volta è così, ma io ho uno stile di scrittura molto diverso e inoltre ho letto i suoi libri nella traduzione tedesca, con solo occasionali digressioni nell’originale, quindi non possiamo parlare di influenza diretta.
Ma di grande ammirazione sì, in ogni caso.
Si ringrazia Emilia Sonni per la traduzione dell’intervista
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