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da BERLINO – Tre donne in dialogo che dialogano sulle donne in dialogo. È cominciato con questa sorta di ‘mise en abime’ l’ultimo incontro programmato per il semestre invernale all’Institute for Cultural Inquiry con tre ospiti d’eccezione: la nota traduttrice e scrittrice Nadia Fusini, la filosofa dell’estetica e saggista Liliana Rampello e l’autrice teatrale e saggista Agnese Grieco.
L’occasione o meglio il pretesto per riunire tre affermate autrici italiane a Berlino è stata come di consueto la presentazione di alcuni testi e di attività culturali promosse dalle tre studiose: Nadia Fusini con il suo Hannah e le altre (Einaudi 2013), Liliana Rampello con il suo Sei romanzi perfetti. Su Jane Austen (Il Saggiatore 2014) e Agnese Grieco con il suo ultimo progetto teatrale, l’Addéla Ole, da La Storia di Elsa Morante (Teatro Elfo-Puccini di Milano).
L’incontro si è subito trasformato in un qualcosa di assai meno formale come l’aperta ed amichevole discussione di tre amiche di fronte ad un pubblico ovviamente invitato a partecipare.
Tre femministe in dialogo sul femminismo, ho dimenticato di dire. E in effetti molto è stato detto sulla specificità femminile nello scrivere e nel tradurre, nella comunicazione e persino nel silenzio. È una rivendicazione un po’ singolare, a pensarci bene. Dopo anni e anni di femminismo, proprio quando la condizione femminile sembra entrata in crisi con la parabola berlusconiana (ma non ne è stato fatto alcun cenno: una dimenticanza e un lapsus forse fin troppo significativi), tre intellettuali difendono la loro voce di donne proclamando d’essere innanzitutto donne, femmine ma anche impegnate, con questa loro specificità, nel mondo della cultura.
Quale sia questa specificità, per tralasciare la vetusta idea che le donne si occupino di determinati temi piuttosto che altri e per tacere dell’assunto assolutamente misogino, a ben vedere, che le donne posseggano una sensibilità particolare, è difficile dire in astratto, proprio perché l’astrazione è frequentemente un’ossessione maschile, come se per pensare fosse intrinsecamente necessario definire prima i parametri della teoria e solo in seguito riempirli di pensieri e non piuttosto, come insegna tra l’altro la filosofia postmoderna, pensare già da sempre entro le strutture, incarnandole e concretizzandole.
Per cui non è forse un caso se questa specificità femminile si declina innanzitutto per esempi piuttosto che per teoresi. Un esempio particolarmente suggestivo, ricordato dalla Fusini, è il particolarissimo modo di leggere il poema omerico dell’Iliade nel mezzo della furia della seconda guerra mondiale non come una celebrazione della lotta e della guerra bensì come un libro sigillato per comprendere il mistero della pace che non è affatto il fine implicito della guerra, come recita l’adagio romano “si vis pacem para bellum,” bensì il suo contrario, come l’estrema declinazione di un pensiero maschile al maschile. Ma quest’ultima lettura giunge appunto quasi all’ultimo (sarei tentato di dire apocalitticamente agli ultimi momenti della storia) proprio da due donne eccezionali che scrissero quasi contemporaneamente quasi le stesse cose se non addirittura le stesse parole sul medesimo libro, l’Iliade, quasi ricalcando un racconto di Borges: la celebre Simone Weil e la meno conosciuta Rachele Bespaloff. Entrambi autrici di profonde letture dell’Iliade, entrambe ebree, una suicida e l’altra quasi suicida. Ciascuna però è riuscita a dar voce ad una trama sottile all’interno dell’Iliade non tanto come manuale per la guerra, quello che si diceva Alessandro Magno tenesse sempre sottomano nelle sue campagne militari, bensì un “livre de chevet:” un libro da tenere sottomano ma anche un libro da capezzale. Un libro per i morti o coloro che conoscono la morte attraverso la guerra.

Ho appena detto: dar voce. È un’espressone di cui si abusa ma che forse andrebbe usata con parsimonia per proteggere appunto il senso delicatissimo che dovrebbe comunicare: l’idea, la persuasione che sia necessario “dare la parola” proprio perché c’è chi non ha la forza di prendersela, a causa della propria debolezza sociale, politica, culturale o di genere, ma anche a causa della propria minorità o semplicemente della propria timidezza. L’atto di “dar voce” è quindi fondamentalmente un gesto di tenerezza: l’idea di lasciar parlare chi altrimenti non parlerebbe.
Ciò vale anche, se non soprattutto, per la propria dimensione interiore: “dar voce” a quella parte di sé che è altrimenti costretta dagli impegni del mondo, dalle aspettative, dai codici sociali e così via.
Proprio perché offrire la propria scrittura ad una voce (interiore?) è anche questa una specificità femminile che tende ad opporsi alla teoria, all’idea che il concetto sia soprattuto qualcosa da vedere passivamente piuttosto che da immaginarsi grazie alla propria opera, costruendo un dialogo, dialoghi: tra sé e sé, tra sé e il lettore, tra sé e il testo immaginario (quello che ancora deve scendere dalla penna sulla carta), tra sé e il testo concreto (quello che si traduce).
È questa capacità di istituire un dialogo, probabilmente non separata dalla vicinanza affettiva con la madre, come la psicoanalisi sopratutto post-freudiana non ha mai mancato di sottolineare, che ha reso Jane Austen grande almeno quanto Shakespeare, come è stato affermato non troppo sorprendentemente da Liliana Rampello che ha lamentato tra l’altro l’assoluta necessità di dirsi femministe ma anche femministi, dal momento che non si può davvero contemplare l’idea di essere intellettuali senza conoscere e praticare anche il pensiero femminile.
Il compito se non il dovere di conoscere il pensiero femminile, ha ricordato, non significa semplicemente riconoscere che esistono, perlomeno dal primo Novecento, pensatrici eccezionali di politica, scienza e filosofia bensì, in modo assai più radicale, che esiste una specificità femminile che appunto è quella di “far voce:” ovvero costruire una affabulazione anche laddove ‘un’ filosofo altrimenti teorizzerebbe solamente.
L’incontro è stato ottimamente mediato e condotto da Agnese Grieco che è è apparsa come una vera e propria comprimaria della serata e non la semplice mediatrice (cosa a cui una certa cattiva televisione ci ha abituati): un’altra voce importante in questo trio di donne in dialogo, forse non casualmente anche autrice di teatro, abituata ad avere ed imporre un’ importante presenza scenica, insomma a dare voce anche col corpo.

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Federico Dal Bo

È giornalista pubblicista e traduttore, dottore di ricerca in Ebraistica, dottore di ricerca in Scienza della traduzione, residente a Berlino


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