Primo Levi si pone più semplicemente rispetto al problema: in una intervista del 1984 con Giulio Nascimbeni che gli riproponeva l’affermazione di Adorno, egli risponde: “La mia esperienza è stata opposta. Allora (nel 1945-46 n.d.r.) mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro (…): In quegli anni, semmai, avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz”, “…o per lo meno tenendo conto di Auschwitz”. Perché è stato un evento irreversibile nella storia umana, aggiungerà in una conversazione con Lucia Borgia.
In una intervista del settembre-ottobre 1986 su Qol preciserà ulteriormente: “Io credo che si possa fare poesia dopo Auschwitz, ma non si possa fare poesia dimenticando Auschwitz. Una poesia oggi di tipo decadente, di tipo intimistico, di tipo sentimentale, non è che sia proibita, però suona stonata. Mi pare che la poesia oggi, in qualche modo dovrebbe essere impegnata. Impegnata anche se non in modo vistoso. In modo esplicito, ma siccome penso che ogni essere umano debba in qualche modo impegnarsi, così a maggior ragione chi scrive prosa o poesia dovrebbe riflettere nel suo scritto un suo impegno. Ma non è un precetto, è una preferenza”.
Shemà
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
(10 gennaio 1946)
Questo articolo è uscito con il medesimo titolo su Peacelink del 27 gennaio 2022.
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Franca Sartoni
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