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Cosa significa nascere e crescere in una famiglia di mafia, respirare omertà e illegalità fin dall’inizio della propria vita, una vita modellata sui codici d’onore della famiglia di appartenenza e non sulle regole e le leggi di uno Stato visto come un estraneo, anzi come un nemico? Vuol dire avere un destino già segnato, fra violenza, carcere e morte?
Sono i minori di mafia, bambini che quando pensano ai buoni e ai cattivi, mettono la divisa ai secondi, bambini che sono allo stesso tempo le prime vittime, la manovalanza e il futuro della criminalità organizzata. E proprio per questo, insieme alle loro madri, questi bambini hanno un’importanza strategica nella lotta alle mafie, per togliere loro linfa vitale dall’interno, fermando il ricambio generazionale e rompendo la catena di trasmissione dei (dis)valori su cui si basa il sistema mafioso, dando contemporaneamente a queste donne e a questi ragazzi una nuova prospettiva di vita.

Proprio al tema minori di mafia è stato dedicato uno degli appuntamenti della Festa della legalità e della responsabilità 2017, ‘Crescere sulla soglia del mondo, minori e mafie’, venerdì pomeriggio nella Sala Consiliare del dipartimento di Giurisprudenza di Unife, nell’ambito del laboratorio MaCrO.
Ospite d’onore, anche se solo in collegamento telefonico durante una pausa di un’udienza, Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, che ha avviato il protocollo ‘Liberi di scegliere’. Questo protocollo si propone di sottrarre, dove viene dimostrata la pericolosità del contesto famigliare e sociale, i minori alle famiglie con modalità differenti a seconda della situazione nella quale si trovano e di inserirli in comunità, centri, famiglie affidatarie delle regioni del centro Nord. La sperimentazione ha finora interessato circa quaranta minori per i quali è stato previsto un progetto personalizzato costruito dalle molteplici realtà che in Italia operano nel campo della legalità e del recupero sociale dei minori a rischio, in particolare Libera.
Ora il Csm con una risoluzione chiede al Parlamento di dare una veste normativa a questo protocollo sperimentale, che ha dato buoni risultati, tanto da essere stato adottato anche a Napoli e a Catania.

“Ho iniziato a lavorare proprio qui a Reggio nel 1993 e poi sono tornato nel 2011: mi sono trovato a processare i figli di quelli che erano stati processati negli anni Novanta”, ha detto Di Bella, “è l’amara conferma che la ‘ndrangheta si eredita”. “Quello dei minori di mafia è un fenomeno troppo a lungo sottovalutato”, i bambini “sono le prime vittime” perché “l’indrottrinamento e il modello mafioso” che respirano e assorbono nelle famiglie e nel contesto sociale in cui vivono rappresenta un “concreto pericolo per l’integrità fisica e psicologica del minore”, ha affermato il magistrato.
“Il nostro obiettivo è duplice: tutelare questi ragazzi e consentire loro di sperimentare diversi orizzonti culturali, sociali e, perché no, affettivi, per sottrarli a un futuro di carcere e morte. Cerchiamo di far vedere loro che esiste un mondo diverso dove l’omicidio non è l’unico modo per risolvere i problemi, dove il carcere non è una tappa obbligata nella vita, dove c’è parità di diritti fra uomini e donne e il fidanzamento non è un modo per costruire alleanze”. “Non c’è nessun intento punitivo”, ha sottolineato Di Bella, e la prova è che sempre più madri si rivolgono al Tribunale con la speranza che sia il primo passo verso un futuro diverso per sé e per i propri figli: “non siamo più visti come un nemico, ma come l’ultimo baluardo di speranza”.
Certo ci sono criticità sulle quali lavorare, come per esempio il passaggio alla maggiore età, quando questi ragazzi si trovano da soli, senza una rete di supporto come quella dei loro coetanei, eppure “alcuni di loro ci chiedono aiuto per rimanere dove li abbiamo trasferiti”. Occorre dunque creare o, laddove già esiste, ampliare le reti di supporto “per i ragazzi e i famigliari che accettano di iniziare percorsi di legalità”: è una componente fondamentale in una strategia di prevenzione e contrasto alla criminalità organizzata.

Parlare di minori e di madri di mafia significa iniziare “a guardare le mafie anche da un’altra prospettiva”, ha proseguito Mario Schermi, formatore del Dipartimento della Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia, professore a contratto di psicologia dell’educazione e sociologia della devianza e del mutamento e autore del libro ‘Crescere alle mafie. Per una decostruzione della pedagogia mafiosa’. A suo parere ci si muove ancora con molta, troppa, difficoltà sul terreno formativo e psico-pedagogico; l’opinione ancora molto, troppo, diffusa quando si parla di minori di mafia è che “con questi non c’è nulla da fare”.
Una possibile strada, per Schermi, è considerare le organizzazioni mafiose non più “solo come organismi criminali da combattere e colpire militarmente e finanziariamente, ma anche come un contesto nel quale un ragazzino vive”. In altre parole le mafie non sono solo una questione di attività criminali “sono un modo di vedere il mondo, di stare al mondo, di crescere i figli, di avere amicizie”, di coltivare certi (dis)valori. Da tempo non si tengono più accesi i riflettori sulla “mafia quotidiana”, sulla “mafiosità diffusa”. La chiave che educatori, formatori, psicologi, assistenti sociali, insegnanti, possono usare con i ragazzi nati in famiglie mafiose è dunque la decostruzione di questo sistema, offrire loro altri orizzonti di senso: costruire insomma una pedagogia civile contro la pedagogia mafiosa.

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Federica Pezzoli



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