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È l’ultima volta che François si trova davanti a questo specchio, tre parti di vetro e una d’argento. I bordi consumati dalle dita che lo hanno sollevato, smontato, riposto, poi montato di nuovo. Le luci oramai fioche a contorno riescono a fatica ad illuminare il suo volto. Osserva il riflesso, ciò che vede è ancora se stesso, nonostante tutto. Cinquanta anni di finzione non hanno dissipato la coltre di ansia che lo assale prima dell’apertura del sipario, riesce quasi a toccarla.

Ma perché dovrebbe avere paura? Lui è un attore, uno dei migliori.
– Sì avanti.
– Il drink signore.
– Mettilo qui, grazie.
La bottiglia di porcellana bianca di Edmundo Dantes Gran Reserva sul vassoio d’acciaio, irrinunciabile abitudine. Sarà vuota a fine serata, François ne è consapevole.

L’aroma di vaniglia, sgomitando, rincorre il tappo, lo sorpassa. Per venticinque anni ha atteso questo momento, ora improvvisamente la libertà di espandersi, di dare sapore ai sensi.
Il naso corre ad abbracciarlo dimenticando il tanfo della muffa, mesto compagno di una vita. L’alone di invisibile paura che lo circonda assume il colore ambrato del liquido versato nel bicchiere di cristallo, il colore del piacere che diventa dolore, della libertà che diventa solitudine.

L’ultimo spettacolo sta per iniziare, la bottiglia già a metà.

François incontrerà per l’ultima volta il suo fantasma, la quarta parete che lo fisserà immobile, senza farsi vedere, nascosto dietro i riflettori, giudice spietato che alzerà il pollice verso, o le mani per applaudirlo.
Apre la porta del camerino e di nuovo si scontra col puzzo di acqua stantia che pervade il corridoio di velluto rubino.
Facce sconosciute lo aspettano, lo toccano, lo acclamano, ultimi fotogrammi di diapositive che nessuno vedrà mai più, cellulosa disciolta negli acidi del tempo che non torna. Il sipario blu notte emette il suo sibilo minaccioso, mentre un brivido gli percorre la schiena fin sotto la folta parrucca corvina.

L’unico proiettore acceso lo punta diretto mentre il mare di parole si placa ed il brusio in sala cessa.

Il fantasma è lì, immobile.

François contrae i muscoli del viso fino a serrare le palpebre; vuole vedere cosa c’è dall’altra parte, è l’ultima occasione che ha. Chi c’è dietro quel lenzuolo bianco? Perché non si fa vedere?
Gli occhi vermigli rinunciano a frugare nella nebbia, è troppo tardi ormai, le pupille d’improvviso si dilatano. Si spengono i riflettori sull’artista, l’ultimo atto è terminato.

Rimane solo l’inchino, il fantasma è sconfitto.

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Fabio Tosti

Sono nato ad Alatri il 28 Agosto 1969, sposato dal 1997 e padre di due figlie. Vivo e lavoro a Roma come Emergency & environmental manager di una società multinazionale di ingegneria. Parlare di se stessi è la cosa più complicata del mondo, anzi no, la più complicata è scriverne. A più di 50 anni però, è arrivato il momento di farlo e questo grazie alle fantastiche persone incontrate in una biblioteca di periferia, quasi per caso. Una vita divisa tra una splendida famiglia e un lavoro che mi ha portato spesso lontano da casa, poi la decisione di inoltrarmi tra i meandri ripidi e boscosi della narrativa. Da qui parte l’escalation virtuosa ancora in atto; scrittura, musica, voglia di non perdere più tempo dietro le effimere ambizioni che qualcuno si ostina ancora a definire “vita”.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it