Fondi di caffè e alberi magici
Stamattina mi sono alzato molto presto. Ho trascorso la notte in un penoso dormiveglia, senza riuscire a prendere sonno, una consuetudine ormai da mesi. Dopo una veloce colazione ho raccolto le idee e sono uscito per la solita passeggiata: dovrò fare anche la spesa, mia moglie si è raccomandata. Con passo stanco sono andato al parco, come faccio nei giorni di sole, anche se oggi è nuvoloso: ci portavamo i bambini quando erano piccoli, ogni tanto ci torno per rivivere momenti lontani.
Comincio a camminare, da solo: la mascherina posso toglierla, non c’è nessuno. Lì davanti a me, un cane randagio va annusando, frugando vicino a un cassonetto ribaltato.
Tra me penso che questo mondo alla rovescia e contraddittorio, strabordante di cattiveria e di ipocrisia, è proprio come quel cassonetto.
Su una panchina poco distante un ragazzo sta seduto assorto nei suoi pensieri, giocando con un bastoncino di legno. Disegna sul terreno qualcosa.
Il cane – ha un collare… mi sa che non è un randagio, l’ho giudicato troppo presto – si avvicina al giovane e gli deposita davanti un sacchetto mezzo rotto, rovesciandone il materiale contenuto: bucce d’arancia e poco altro.
Ero uscito per fare due passi e cercare qualcosa che riaccendesse in me l’interesse verso l’umanità, dopo una notte insonne vuoto come una bottiglia di birra a testa in giù in una duna sabbiosa del deserto, cercando qualcosa a cui appassionarmi per dimenticare questa pandemia. Mi siedo all’altra estremità di quella panchina, consapevole che avrei trascorso un’altra mattinata grigia alla ricerca, inevasa, di un motivo per non pensare ai miei figli lontani.
Guardo quel giovane a 2 metri da me: distanza di sicurezza. Il mio coinquilino di panchina avrà trent’anni circa, è un ragazzo alto. Penso che alla sua età sarei stato in giro a inseguire sogni, chitarra a tracolla e sigaretta sempre accesa, per fare serenate a due-tre ragazze e decidere come cambiare il mondo.
“Ecco, questo tipo è una delle cause del mondo capovolto di cui sopra” rifletto tra me.
Il bastoncino tra le mani del ragazzo attira non solo la mia attenzione, ma anche quella del suo cane, che cerca di strappargliela addentandola per coinvolgerlo nel gioco del lancio e recupero, quello che fa sempre felice un cane, cucciolo o attempato che sia. Ma non riesce a distogliere il giovane dal suo muto vagabondo tracciamento di ghirigori. Stufo il cane si allontana inseguendo una foglia, attività infinitamente più interessante.
Anche io guardo quei ghirigori: con la punta del bastoncino il ragazzo disegna, spiana, poi ritraccia altri segni, gli occhi bassi.
“Ciao” gli dico. Senza alzare lo sguardo, lui, a voce bassa: “Ciao”.
“Cosa fai di bello?”. E lui: “Cerco una risposta”.
Gli chiedo allora quale risposta si possa trovare rigando un po’ di terra.
“Non è terra: è un fondo di caffè”.
Avrei potuto alzarmi e tornare sui miei soliti, annoiati passi, ma qualcosa mi fa restare.
Tento di farlo parlare: la mia indole di professore in pensione, abituato a cacciar fuori con le pinze una parola dagli studenti pur di fargli dire qualcosa e non dar loro un “impreparato”, mi spinge a chiedergli quale verità ci sia in un po’ di posa di caffè caduta da una busta di un cassonetto.
Risponde: “Mio nonno mi raccontò che dalle sue parti, al Sud, le donne per interpellare gli spiriti usavano il fondo di caffè, mentre gli antichi leggevano le viscere e i comportamenti degli animali”.
Gli chiedo: “Ma tu cosa cerchi in quel fondo di caffè?”.
Spostando appena un po’ lo sguardo, dice: “Vorrei trovarci dei fantasmi, per poterli seguire, anzi inseguire… chiedergli tante cose. Ma non funziona. Forse è decaffeinato, perciò non funziona”.
Il cane torna a chiedere una carezza, alla ricerca di affetto e di un compagno di giochi: la ruvida leggerezza con cui il suo muso sfiora la gamba del ragazzo mi ricorda vagamente la carezza di un padre. “Joker, va’ a giocare…” sbotta lui.
“Davvero credi ai fantasmi?” gli chiedo.
Iniziamo così a parlare: a raffica gli racconto della mia famiglia, dei miei figli, di cui uno ha circa la sua età, lontani per colpa del COVID e del lavoro inesistente. Gli parlo di un nipotino che non vedo da molti mesi: io non ho avuto i nonni, ma quel bambino un nonno ce l’ha, perché non posso stare con lui, portarlo al parco, al cinema? Raccontargli tante cose, articoli di giornali, favole, teorie, testi di canzoni, romanzi, trame di fumetti…?
Luca, così si chiama il ragazzo, alza gli occhi e mi guarda. Un leggero sorriso incurva appena le sue labbra notando i capelli bianchi sfuggenti sotto il mio cappello. E così mi parla di suo nonno: un ex-professore di latino e greco che gli aveva insegnato tante cose, come scrivere l’alfabeto greco e storie di mitologie e leggende… storie bellissime.
“Perché non vai a trovarlo, tuo nonno, ogni tanto?” gli chiedo, burbero.
Ricomincia con quel bastoncino a interrogare il fondo di caffè, non vuole parlarne, ma poi alla fine, risponde:
“Ero al battaglione in quel periodo. Sapevo che nonno stava male e che forse dovevano ricoverarlo, ma mia madre non mi aveva detto nulla di più. Poi quel giorno di marzo accadde tutto: ci chiamarono dal comando. Ci dissero che servivano i camion, bisognava trasportare i morti del COVID perché erano troppi in città e non c’era più posto. A me sembrava tutto assurdo, incredibile, avevo solo voglia di guardare lo sport sullo smartphone per non pensarci, ma poi mi telefonò mia madre e disse che nonno non ce l’aveva fatta. Nessuno sapeva dove era stato ricoverato, né dove ora l’avrebbero portato. Nulla”.
Joker si era accucciato ai suoi piedi, ad ascoltare: anche lui voleva finalmente capire perché Luca fosse così da giorni, anzi mesi.
“Io chiesi al capitano di poter essere uno degli autisti: ma come me ce n’erano altri che avevano perso qualcuno allo stesso modo. Tutti volevamo … non so… magari trovare un nome su una cassa. Ma il capitano rispose che noi eravamo troppo coinvolti, perciò avrebbe scelto altri come autisti. Allora mi sono ricordato del cavallo di Troia e di Ulisse, quello che con una bugia faceva fare ciò che voleva a chiunque: ho seguito il capitano e gli ho detto che l’ultima volta che avevo visto mio nonno avevamo litigato. Così il capitano mi ha inserito nel gruppo degli autisti” ha concluso Luca.
Comincio a capire: mi ritornano in mente quelle lunghe file di camion nella notte di Bergamo, viste in televisione da miliardi di persone attonite e sconvolte. Ma non avevo mai pensato agli uomini che guidavano quei camion. Luca aveva pochi altri ricordi, e tanta rabbia e dolore. Poi ha continuato, a voce bassa: “Quando abbiamo chiuso quel cancello dietro al quale avevamo ammassato le casse, siamo rimasti lì fuori, in attesa. Di che cosa poi? Boh.
Uno di noi autisti disse: ci vorrebbe una preghiera.
Un altro disse: ci vorrebbero dei fiori. Ma non avevamo nulla.
Un sergente magrolino andò allora nel suo mezzo, e tornò con due Arbre Magique, uno azzurro un po’ usato e uno rosso nuovo che tolse dalla bustina, e fece cenno a tutti di fare altrettanto. Li andammo a prendere e li mettemmo tutti insieme: erano di tanti colori diversi, c’era un profumo intenso. Ma non sapevamo come legarli tra loro. Io mi sono strappato il braccialetto di cotone colorato, il portafortuna, e ho detto agli altri di fare lo stesso. Quel sergente mi ha guardato, li ha intrecciati velocemente in modo ordinato: così, nonostante la mascherina, mi sono accorto che era una sergente. Lei mi ha guardato con due occhi … quegli occhi che non riesco più a dimenticare. E così sul cancello abbiamo legato quella piccola corona di alberi profumati variopinti: è stata come la celebrazione del Milite Ignoto. Non so nemmeno di quale brigata fosse quel sergente, né il suo nome, non so nulla. Certe volte non so neppure se ho sognato tutto. Per questo ora cerco di capire qualcosa negli oscuri segni del destino o nei fondi del caffè: vorrei trovare almeno una risposta”.
Joker ha infilato la sua testa sotto la mano di Luca, e questa volta Luca lo accarezza, poi afferra il bastoncino e lo lancia lontano. Joker come un fulmine schizza a riprenderlo e glielo riporta, felice di aver ritrovato l’amico fraterno di giochi.
Sono rimasto lì, confuso: ribaltato come il cassonetto di prima.
Ho salutato Luca e distrattamente gli ho teso la mano, ma l’abbiamo ritratta entrambi, memori delle regole sul distanziamento, così ho scorto sul suo polso un braccialetto portafortuna.
“Sì” dice Luca” il giorno dopo ne ho comprato un altro: questo servirà per ricordarmi mio nonno. Ho deciso che lo terrò per tutta la vita, o almeno fino al giorno in cui non ritroverò gli occhi di quel sergente”.
“Li ritroverai, ne sono certo” gli ho detto. ”Come fai ad esserne così sicuro?” mi ha ribattuto Luca.
“Lo so. Studiavo i greci come tuo nonno: io però guardo le nuvole per indovinare i venti e cercare di capire gli eventi. E poi scrivo racconti, da leggere forse un giorno a mio nipote: se vuoi posso raccontare la tua storia, magari ritrovo quel sergente…”.
Luca ha annuito e ha sorriso, finalmente. Poi mi ha salutato con il gomito e un gesto della mano.
Sono tornato di corsa a casa, dimenticando di fare la spesa, l’animo in subbuglio ma vivo: e ho subito iniziato a scrivere.
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Francesco Facchiano
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