LA MEMORIA
Fantasia e tenacia: in ricordo di Paolo Mandini che oggi festeggerebbe 73 anni di vita intensa
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di Antonio Rubbi
Ci eravamo trovati, giusto un mese fa, amici e compagni, la città nelle sue espressioni che la rappresentavano, sindaco Tagliani in testa, a salutare Paolo Mandini che ci avrebbe lasciati per sempre. Troppo presto e troppo dolorosamente, per Paola e Stefania e per noi tutti. Parlare di lui al passato mi riusciva a stento allora, fatico ad abituarmici ora quando ancora mi pare debba arrivare, attesa e gradita, la sua telefonata per raccontarmi di un fatto della città, del risultato della partita della nostra amata Spal, ma più frequentemente per un fatto politico del giorno , fosse esso inerente a problemi cittadini o nazionali o riguardassero le preoccupanti vicende dell’inquieto e confuso mondo di questi tempi.
Perché con Paolo di politica prevalentemente si parlava. Per lui, come del resto per tutti noi che venivamo della stessa militanza partitica e da una esperienza di vita che se pur distante negli anni era simile nei valori cui si ispirava e nei percorsi da compiere la politica era, ed è rimasta, come una specie di seconda pelle.
Paolo per di più le vicende della politica le viveva ancora con la immedesimazione e l’ardore di quando si trovava in prima linea e sentiva di dover dar conto quotidianamente del suo pensiero e del suo operato, benché la condizione del pensionato e i problemi di salute che lo affliggevano gli dovessero suggerire un minor grado di tensione e di coinvolgimento.
Mi ricordava il tempo in cui avevamo operato assieme, un decennio buono in Federazione e poi quasi altrettanto sui banchi del Consiglio Comunale. La stessa voglia di ascoltare e di apprendere, ma anche di confrontarsi senza timore referenziale, sino alla contrapposizione e allo scontro, che non erano stati infrequenti soprattutto negli anni incandescenti dei movimenti giovanili e studenteschi del ’68-’69. C’erano stati momenti in cui davvero avevamo faticato a capirci: il partito dei grandi ancora arcigno e guardingo, culturalmente non pronto ad accogliere le novità dirompenti che tali movimenti proponevano e dall’altro schiere di giovani e ragazze suggestionati da correnti di pensiero e propositi di cambiamenti radicali dello stato delle cose esistenti, rappresentati in una miriade di gruppi e gruppuscoli, partiti e partitini sin li sconosciuti e quasi sempre espressi in nomenclature estreme. Va dato merito a quel gruppo di giovani che si trovavano in quegli anni con Paolo alla testa della Federazione giovanile se, dopo aver tanto battagliato nei cortei, nelle assemblee studentesche, nelle sezioni e nei circoli, con larghissima parte di quei giovani e ragazze sapemmo ritrovarci e riprendere ad operare insieme.
Mi ricordava il Paolo dei dibattiti in Consiglio Comunale ai tempi dell’istituzione dei Consigli di Quartiere per allargare la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica; dell’apertura di nuovi istituti e sedi in città per incrementare interesse e partecipazione a dibattiti culturali in grado di favorire la conoscenza reciproca ed una collaborazione maggiore tra le forze politiche e sociali della città. E infine, l’inizio del suo lungo e insuperabile impegno, come assessore allo sport. Ha ben scritto Fiorenzo Baratelli, suo amico da una vita, che Paolo Mandini è stato il migliore assessore allo sport che Ferrara abbia avuto e gli sportivi ferraresi di ieri e di oggi hanno già dimostrato di riconoscerlo come tale e sono convinto che non mancheranno più significativi attestati in futuro.
Come dirigente politico Paolo Mandini non aveva solo il gusto del dibattito; sapeva bene che occorreva unire a questo anche il momento dell’azione, del fare. Ed in questo era pieno di risorse. Era dotato di una fantasia e di una mente talmente fervida da sfornare a getto continuo idee e proposte. Per tanti versi mi ricordava l’incontenibile Roffi dalle mille trovate. Ero piuttosto io a mantenere un atteggiamento di cautela quando mi sottoponeva certi parti della sua insuperabile fantasia. Perché Paolo lo conoscevo bene e sapevo che se era bravissimo e assolutamente affidabile per tante cose, non era quel che si dice un organizzatore provetto ed era piuttosto disordinato nelle sue iniziative, cosicché, poteva capitare che alcune brillanti idee si arenassero ancora allo stadio della messa in cantiere ed altre languissero in rifacimenti continui e tempi infiniti.
Ma poi era venuto un momento che mi aveva costretto a ricredermi e mi aveva sorpreso sino allo sbalordimento. Era stato quando era andato a prestare la sua opera nel movimento cooperativo ed in talune circostanze aveva avuto l’incarico di portare avanti iniziative di solidarietà internazionale, che interessato e sensibile come era sempre stato per le vicende internazionali, accendevano il suo entusiasmo. In alcune occasioni si era rivolto a me, in quel periodo alla direzione del partito a Roma a dirigere la sezione esteri, ed ero stato ben felice di potergli dare una mano. Era stato relativamente facile far giungere gli aiuti che il movimento cooperativo aveva raccolto per il Fronte di Liberazione di Angola e Mozambico, per l’Anc che in Sud Africa si batteva contro l’apartheid; bastava collegarsi con i reggiani che avevano un canale aperto e che avrebbero facilitato il recapito. Assai più complicato era stato, qualche anno dopo dar seguito all’appello proveniente da Cuba volto ad ottenere materiale di cancelleria scolastica di cui c’era estrema carenza. Come concretamente Paolo avesse fatto non so, ma non troppi mesi dopo nell’ambasciata cubana a Roma era pervenuta una lettera di ringraziamento del governo cubano diretta alla cooperazione italiana.
E infine la faccenda dell’orologio per Mostar. Una storia quasi incredibile. Tra le tante conseguenze tragiche della guerra serbo-bosniaca c’era stata la distruzione a Mostar del famoso e bellissimo Ponte Vecchio sulla Neretva, costruito dai Turchi nel 1556, e successivamente ornato con un enorme orologio murale d’epoca, anch’esso andato perduto. I bosniaci chiedevano aiuto per la ricostruzione dell’uno e il rifacimento dell’altro. Ed era appunto a nome di una cooperativa specializzata di Modena che dichiarava di prendersi in carico il ripristino dell’orologio murario che Paolo stavolta agiva. Come sia andata a finire di preciso non so, quel che so di certo è che continuò ad occuparsene a lungo con tenace impegno.
Era nella sua indole offrirsi ad ogni causa nobile ed aiutare chiunque si trovasse in una condizione di difficoltà e bisogno, fosse una singola persona, una comunità, un popolo intero. Bisogna anche dire che aveva grande facilità e naturalezza di approccio con persone di altri paesi, di altre storie e culture, di altre razze. E questo approccio lo manteneva allo stesso modo per tutti, dai più umili ai più “grandi”, quelli che entrano nella storia. L’avevamo visto a Ferrara portare a passeggio lo sfortunato protagonista della “primavera di Praga” Alexander Dubček, io l’avevo visto nella sede della Coop di Modena farsi amico in un breve pomeriggio un personaggio come Mikhail Gorbaciov che il mondo intero nel periodo della “perestroika” aveva osannato. Si era immediatamente accattivato la sua simpatia e quando si erano salutati si erano pure scambiati una divertita reciproca pacca sulle spalle. Io Gorbaciov lo conoscevo da anni, avevo trascorso con lui giornate e giornate, ma una confidenza del genere non me la sarei permessa.
Nella vita di Paolo non erano mancati i momenti di amarezza. I peggiori furono certamente quelli in cui lui ed un gruppo di compagni ed amici che condividevano lo stesso pensiero e lo stesso atteggiamento avevano ritenuto loro dovere di cittadini e di militanti di una forza politica che della correttezza amministrativa aveva fatto una sua bandiera, denunciare quel sistema di potere che si era costituito attorno alla amministrazione comunale e ad alcune sue scelte, discutibili al massimo ed opache quando bastava per mettere in allarme e che coinvolgeva settori della politica ferrarese del movimento cooperativo, segnatamente la potente Coop Costruttori. Apriti cielo! Contro questi maldicenti “grilli parlanti” e “moralisti a tempo perso” fu condotta una virulenta campagna per isolarli e metterli all’indice. Una condotta tracotante e miope. Un ceto dirigente un po’ meno coinvolto e un po’ più accorto avrebbe all’opposto cercato di indagare più a fondo i motivi di quelle critiche e l’oggetto specifico della denuncia che veniva fatta. Sarebbe stata anche la strada migliore per cercare di suturare la ferita profonda che era venuta a crearsi all’interno dello stesso schieramento. Lo fecero più tardi, quando arrivarono loro alla direzione del partito: Roberto Montanari prima, con nettezza e a modo suo, Mauro Cavallini dopo. Ma poi furono i fatti a parlare: il crac rovinoso della Coop Costruttori, con tragiche conseguenze per migliaia di famiglie e di lavoratori e pesanti ricadute sull’economia argentana e ferrarese, le cause in giudizio nelle aule dei tribunali; il Palazzo degli Specchi ridotto ormai alle sembianze di uno spettro a testimonianza simbolica dello scempio compiuto. Nell’acceso scambio polemico di quegli anni ci saranno state certamente forzature da una parte e dall’altra. A Paolo capitava di trovarsi sopra le righe, non aveva difficoltà ad ammetterlo. Ma riconoscere ora, alla luce di quanto accaduto, chi era nel vero non dovrebbe essere difficile. E’ sperabile allora che qualcuno tra i responsabili senta di dovere quanto meno delle scuse a quanti condussero quelle battaglie di verità?
Il pensiero di Paolo negli ultimi tempi era rivolto, come credo la maggior parte di noi, a cercare risposte dal caotico e mal governato mondo che ci ritroviamo. Come la fermiamo quella orribile marmaglia nera dei fanatici e feroci seguaci del sedicente Califfo prima che si attesti in forze anche davanti all’uscio di casa nostra, in Libia, e pronta a sguinzagliare nei paesi europei i suoi sicari di morte? E come fronteggiamo la massa dei migranti che scappa dai paesi in guerra, fatto salvo il dovere, prima di tutto, di assisterli affinché non anneghino? Seminando paure, alzando sempre più filo spinato, lasciando fare le ronde di razzisti e xenofobi sollecitati ad arte da movimenti populisti e forze di destra che sull’odissea dei migranti intendono procacciarsi popolarità e voti, o piuttosto con una più energica ed unitaria iniziativa europea di intervento nei paesi d’origine, e per regolare e distribuire più equamente, tra i 28 paesi dell’Unione, il loro carico e organizzando i rimpatri di quanti non hanno motivi per restare? Si sfogava con me, ma capivo che su problemi come questi avrebbe voluto confrontarsi in sedi ben più ampie e rappresentative. Cosa pensava la gente bisognava farlo con il contatto diretto, non solo online. E questo si sarebbe dovuto fare anche a proposito di misure del governo che non lo convincevano tanto e delle quali avrebbe voluto dire molto di più di quel che si poteva affidare ad uno smilzo trafiletto di giornale. Ci voleva ben altro spazio per spiegare perché lui ritenesse “liberista” della più bell’acqua la riforma del Jobs Act che si sarebbe voluto far passare come “di sinistra”, e lo lasciavano scettico le riforme costituzionali perché con la motivazione che si superava il bicameralismo si era giunti a proporre una sorta di mini Senato che non si capiva bene che vesti indossasse e che funzioni avrebbe dovuto assolvere nella sua nuova vita. L’unico dato certo che questa riforma vista insieme al progetto di nuova legge elettorale in cantiere ci avrebbe dato tanto una Camera quanto un nuovo piccolo senato di persone nominate dalle segreterie (o meglio da alcuni segretari) di partito producendo uno strappo serio al principio di rappresentatività della sovranità popolare indicato dalla costituzione e quindi al carattere democratico delle istituzioni parlamentari del paese.
Come sorprendersi poi se cittadini ed elettori si staccavano sempre di più dalle istituzioni, dai partiti, dalla politica? Avevamo vissuto entrambi in modo traumatico (penso sia stato cosi per una grande quantità di elettori della nostra regione, soprattutto tra quelli orientati a sinistra) il fatto che alle elezioni regionali dello scorso anno solo il 37 (!) per cento dell’elettorato si fosse recato alle urne. Questo nell’Emilia Romagna, una delle regioni più evolute e democraticamente avanzate dell’intero paese! Ma ciò che aveva ancor più sbalordito è che questo dato non avesse sollevato un’ondata di richieste di spiegazioni, un sussulto degli iscritti e simpatizzanti di partiti di sinistra che la regione l’avevano da sempre guidata, un moto anche di indignazione. Tutto velato, silenziato, archiviato in fretta. A questo era giunta una politica che era andata via via allontanandosi dagli interessi e dai sentimenti di larghe masse popolari e fatta da partiti trasformatisi in semplici comitati elettorali a sostegno del prescelto di turno perché possa ricevere la delega necessaria alla sua personale carriera. Si era ormai parecchio lontani da quella concezione della politica come portato di valori ideali per cui battersi con dedizione a assoluto disinteresse, come opera e servizio nell’interesse della comunità e della sua parte più emarginata in specie, come funzione da esercitare nel pubblico e nel privato con rettitudine ed onestà. Una concezione della politica che non può essere solo dei tempi andati ma che deve essere di ogni tempo. Soffriva per questa piega delle cose ma non disperava che fosse ancora possibile recuperare un modo di fare politica che fosse ancora capace non di carpire qualche voto in più ma di accendere il pensiero e scaldare i cuori.
Oggi Paolo avrebbe compiuto 73 anni. Da come gioiva quando dai periodici controlli medici di Padova tornava con buoni esiti, o si deprimeva quando stabilivano il contrario, si può capire come fosse tenacemente attaccato alla vita e pensasse, sperasse, di festeggiare e questo compleanno e tanti ancora a venire. Lo voleva perché sentiva forte l’affetto dei suoi cari, la simpatia e la solidarietà degli amici, la stima di tanti. Lo voleva perché sentiva di avere ancora tanto da studiare e imparare, tanto da vedere e curiosità da soddisfare, tanto da fare.
Per noi lo doveva perché sentivamo quanto ancora potesse dare a noi tutti e alle cause per cui ha speso una vita. Credo sarebbe lieto di sapere che per quel tanto che ci sarà concesso proveremo a fare anche la sua parte.
Roma, 12 febbraio 2016
Antonio Rubbi è stato un esponente di primo piano del Pci sia a livello locale che a livello nazionale. E’ stato segretario della Federazione provinciale del Pci nel decennio delle ‘riforme’ e della grande avanzata del Pci: gli anni settanta. Dopo molti anni di presenza nel Comitato Centrale del Pci, entrò nella Direzione nazionale e fu nominato responsabile della Sezione Esteri, divenendo uno dei più stretti collaboratori di Enrico Belinguer. Ha, inoltre, scritto libri importanti sulle esperienze e occasioni che l’importante e delicata responsabilità gli consentirono. Pubblicò libri su Nelson Mandela, Arafat, sulla Russia di Eltsin, su Enrico Berlinguer. Sono testi preziosi per ricostruire il contesto, i fatti e le scelte di politica internazionale che videro il Pci di Berlinguer attivo e protagonista insieme ai grandi dirigenti del sud del mondo e delle grandi socialdemocrazie europee.
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Antonio Rubbi
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