No, non è la cronaca di una partita di pallastrada, ma una piccola storia inventata che spero faccia riflettere. Facciamo finta, dicevamo, che domani mattina qui in Italia un feroce manipolo di terroristi, dopo aver provocato un attentato in cui hanno perso la vita molti innocenti, braccato dalle forze di sicurezza, si rifugi armi alla mano in un centro sociale alla periferia di una grande città del nord. L’edificio è una ex cascina fortificata, così comuni in passato in quella che allora era aperta campagna, ed in esso vivono regolarmente svariate decine di persone, compresi molti bambini Per sua natura è perciò difficilmente attaccabile dall’esterno e pochi uomini ben armati possono difenderlo efficacemente: espugnarlo significa perciò esporre gli attaccanti al rischio di gravissime perdite.
La situazione è oggettivamente complessa, perché se da un lato è impensabile non fare tutto il possibile per assicurare alla giustizia i criminali, dall’altro l’utilizzo di strumenti bellici più efficaci, come ad esempio aviazione o artiglieria pesante, se ridurrebbe le perdite fra le forze dell’ordine, metterebbe però a repentaglio la vita di troppi innocenti. Sui giornali e sui social network infuria il dibattito che, come purtroppo accade i questi casi, si trasforma ben presto in rissa dalla quale emergono sostanzialmente tre posizioni diverse.
La prima, che definiremo per comodità “intransigente”, prevede che l’esigenza di fare giustizia prevalga su qualunque altra considerazione. Di conseguenza, poiché non sarebbe giusto esporre a rischi troppo elevati i difensori dello stato di diritto e della legalità, l’uso di armi pesanti può essere considerato del tutto lecito, a maggior ragione perché molti di coloro che vivono nel centro sociale, anche se tecnicamente innocenti, sono con ogni probabilità simpatizzanti dei terroristi.
La seconda, al contrario, ritiene che stando così le cose non bisognerebbe mettere a repentaglio la vita di nessuno, terroristi inclusi. L’unica cosa da fare è perciò quella di accettare le loro richieste, che consistono in un salvacondotto per uno stato estero di loro scelta ed un riscatto di qualche miliardo di euro. Chiameremo questa ipotesi “buonista”.
C’è infine chi ritiene che gli intransigenti abbiano senz’altro ragione per quanto riguarda la tutela del principio di giustizia, ma che nel contempo non si debbano volontariamente mettere in pericolo cittadini innocenti. I terroristi vanno perciò catturati anche al prezzo di vittime fra le forze dell’ordine, perché è solo in questo modo che uno stato democratico può dimostrare la propria superiorità etica su chi usa il terrore come strumento di lotta politica.
Intanto la cascina viene completamente circondata e la polemica infuria più che mai, radicalizzandosi ulteriormente.
Fra gli “intransigenti” si afferma il principio che un attacco militare, oltre a consentire di punire i responsabili di un crimine efferato, sarebbe anche un’occasione di riprendere il controllo della cascina, occupata da tempo dal centro sociale a cui un regolare contratto d’affitto è stato per anni rifiutato sulla base di oscuri cavilli, noto centro di “propaganda sovversiva” e punto di ritrovo di “sbandati e tossico dipendenti”.
Fra i “buonisti” invece sono molti quelli a sostenere che le motivazioni dei terroristi sono in realtà giustificate e che le loro azioni, anche se non del tutto condivisibili, non hanno alternative. La responsabilità principale è infatti da attribuire alla Stato, il cui intervento non avrebbe perciò legittimazione alcuna.
La piccola storia finisce qui ed ha perciò un finale aperto. Chi la legge è pregato di pensare a quale sarebbe per lui la soluzione più ragionevole. Ovviamente ogni possibile riferimento a quanto sta avvenendo a Gaza in questi giorni è del tutto intenzionale.
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Raffaele Mosca
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