Europa tedesca o Germania europea: se la locomotiva d’Europa fatica a stare sui binari
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Cosa succede se anche la Germania è contagiata dal virus dell’instabilità?
Il 24 settembre scorso si sono svolte le elezioni federali nel paese che dal dopoguerra conta in tutto otto cancellieri e 23 governi, contro una sessantina di esecutivi e una trentina di premier in Italia.
Dalle urne escono vittoriosi i cristiano-democratici (Cdu), il partito di Angela Merkel, ma con oltre due milioni di voti persi per strada. I socialdemocratici (Spd), col peggior risultato di sempre, si dichiarano indisponibili a proseguire la grossa coalizione. Perciò la cancelliera uscente inizia i colloqui con liberali – per la volta prima fuori dal Parlamento perché rimasti sotto il 5 per cento – e verdi, in crescita. Il tentativo è di mettere in piedi una maggioranza senza i nazionalisti di estrema destra di Alternative für Deutschland (Afd), arrivati al 13 per cento.
Dopo oltre due mesi la Germania non ha ancora un governo, anche se Martin Schulz, leader dell’Spd, di fronte al preoccupante stallo pare tornare sui suoi passi.
“Una situazione del tutto inedita”, commenta Gian Enrico Rusconi, studioso che da sempre osserva la Germania con la lente d’ingrandimento. Tanto che fioccano le sentenze del tipo: “Germania anno zero” e “fine del merkelismo”.
Il capolinea della normalità teutonica, questo è il tema, non è un problema solo per i tedeschi. Se va in crisi la locomotiva, figurarsi i vagoni. Se sul fronte interno l’instabilità fa riaffiorare dagli scantinati della storia lo spettro della Repubblica di Weimar, con tutto ciò che ne è seguito, su quello continentale si indebolisce la costruzione europea, che non gode di ottima salute ed è da tempo nel mirino di populisti, nazionalisti, sovranisti e rigurgiti xenofobi, che ovunque rialzano la testa.
I motivi dello stop alla tessitura di frau Merkel per un’inedita coalizione ‘Giamaica’ (dai colori dei partiti che la compongono sulla carta) sono: i ricongiungimenti familiari in tema immigrazione e il carbone. Il rebus migranti e l’insistenza sui combustibili fossili (per un paese che ha fatto del colore verde un proprio vanto), sono cioè i termini di una distanza politica inconciliabile fra improbabili alleati e paiono, in fondo, i due corni di un modello di sviluppo complessivo che mostra, per molti inaspettatamente, profonde crepe.
Ecco i motivi delle preoccupazioni che da più parti si levano e che vanno ben oltre la momentanea difficoltà di dare un governo al più solido paese d’Europa.
Ne ha parlato anche la trasmissione Report, nella puntata di lunedì 27 novembre.
Grattando la superficie dell’invidiato modello tedesco – se quanto raccontato coincide con la realtà – si viene a sapere che anche gli agricoltori della gonfia Baviera non ne possono più di produrre frutta e ortaggi con margini di guadagno ridotti allo ‘zero virgola’, a causa di una politica dei prezzi imposta dai colossi della distribuzione. Si viene a sapere che le lungimiranti riforme del mercato del lavoro inaugurate ai tempi del cancelliere Gerhard Schroeder hanno di fatto aperto le porte a schiere di lavoratori per i quali non è ben chiaro il confine tra flessibilità e precariato.
Vero e proprio banco di prova globale il mercato del lavoro dunque, non solo in Italia. Se da un lato c’è consenso fra sociologi e giuslavoristi nel sostenere che occorre passare dalla tutela del posto di lavoro a quella del lavoratore (la stessa strenua difesa di parte della sinistra italiana sull’art. 18 è vista come un arcaismo anacronistico), dall’altro è ancora un problema come si possano tenere insieme i modelli scandinavi di flexsecurity e sussidi con le immagini strazianti di ‘J Daniel Blake’, il film del 2016 in cui da par suo Ken Loach racconta storie di fame nel ventre britannico dell’evoluto Occidente, trattate con la più indifferente burocrazia e nel nome della più evoluta cultura progressista della terza via.
Così anche nella prospera Germania milioni di persone vivono ai margini con sussidi di disoccupazione o sottopagati.
Un modello però tuttora trionfante, secondo statistiche e diagrammi, che consegna alla locomotiva tedesca un surplus commerciale ben oltre il 6 per cento ammesso da Bruxelles, che però non muove un dito ai fautori dell’ordoliberalismo per far rientrare questo strapotere nei limiti dei trattati europei. Mentre per tutti gli altri resta inflessibile il dogma dei parametri contabili dei bilanci pubblici: deficit-debito-pil.
Non è un caso, forse, se in tedesco il termine “debito” (Schuld) significhi anche “colpa”.
Il caso Grecia docet. Se è vero che Atene è stata a lungo cicala nei bilanci statali, anche taroccando i conti, è altrettanto vero che la cura imposta è stata quella di un padrone-predone, più che di un partner comune.
Di questo passo l’Europa resta ostaggio di interessi nazionali, il cui ritmo è dettato dalla sua motrice nel nome della competitività ordoliberale. Prigioniera di un cervellotico assetto intergovernativo, che controlla, trattiene e, alla fine, soffoca il suo approdo federale. Alla lunga è vano lo slancio, pur sacrosanto, della moneta unica e di Schengen, se non è accompagnato da politiche economiche, dell’innovazione, della ricerca e fiscali comuni, in grado di produrre grandi economie di scala e liberare investimenti da non credere.
Uno sbocco federale che potrebbe consegnare alla vecchia Europa il ruolo centrale di dimostrare che solo in democrazia (che qui è nata) c’è vero benessere, in una scena globale abitata da nuovi perimetri in cui pare scontato che la ricchezza prescinda dalle libertà democratiche.
Condotti, invece, a tappe cocciutamente forzate sulla strada della potente ortodossia uber alles, non ci si cura dei danni collaterali delle schiere di esclusi. Un giacimento di malcontento e rancori che sta affiorando un po’ ovunque, spaccando la crosta continentale. Un fiume carsico che s’ingrossa e che trova naturale la sponda di chi ha interesse a cavalcare più che a governare le paure, gli stessi che da tempo martellano menti e pance vuote additando l’Europa come il problema e non la soluzione.
Un piano inclinato predisposto, innanzitutto culturalmente, alla scrittura del programma politico che unisce i punti del disagio, del rancore e della paura, con quelli della diffidenza e intolleranza verso il diverso e lo straniero. Così si corre verso l’indifferenza, come dice il filosofo Roberto Escobar, che è il massimo della differenza, cioè l’esatto opposto dell’uguaglianza e, come tale, la fine delle libertà.
Ultimo punto drammaticamente coerente di questa linea, infatti, è l’uscita dalla cornice democratica, ridotta a guscio vuoto inutilmente ‘discutente’ e chiassosamente inconcludente.
Un conto è se finora le destre populiste, nazionaliste e xenofobe, fanno proseliti dove ci si ostina a fare debiti e ritardare le riforme (spia folkloristica di arretratezza e di ritardo a mettersi in riga), ma il discorso cambia se queste stesse destre crescono vistosamente nel ventre materno, sicuro e florido del prototipo, minando da dentro la normalità e la stabilità del tabernacolo teutonico di questo modello.
Dunque, il contagio dell’instabilità politica persino nella possente Germania può essere non solo la passeggera difficoltà di fare un governo, nel clima generale di crisi delle democrazie, ma un campanello d’allarme proprio per la via maestra e rigorosa, che non si accorge di allevare dentro di sé il killer del proprio stesso ordine. Killer che si ha la sensazione stia, un po’ ovunque, avvicinandosi pericolosamente all’età adulta.
Riecheggia ancora oggi inquietante il monito che Thomas Mann agitò nel 1953 agli studenti dell’Università di Amburgo, esortandoli a sostenere non un’Europa tedesca, ma una Germania europea.
E’ questo il senso profondo del primo gesto dell’Europa che, uscita in macerie dalla follia nazifascista, mise insieme le due risorse per le quali fino allora gli stati si erano massacrati: il carbone e l’acciaio.
E’ il filo che occorrerebbe ricominciare a tessere, prima che sia troppo tardi.
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Francesco Lavezzi
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