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Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, mercoledì 14 settembre al Parlamento Ue ha sintetizzato il suo pensiero.
“Il Patto di stabilità – ha detto – non deve diventare un patto di flessibilità, ma deve essere applicato con flessibilità intelligente per non ostacolare la crescita dell’economia”.
Viene in mente la canzone di Elio e le storie tese: “Né carne né pesce, la mia angoscia non decresce”.
Se avesse detto che le regole vanno rispettate, avrebbe strizzato l’occhio alla Germania. Se avesse detto più flessibilità nei bilanci pubblici, avrebbe voltato le spalle a frau Merkel. Ha invece detto entrambe le cose, con l’aggiunta dell’aggettivo intelligente, che vuol dire che Bruxelles si barcamenerà per non scontentare nessuno.
Né carne, né pesce, appunto.
C’è chi fa notare che così l’Europa muore lentamente, lasciando marcire i problemi anziché risolverli. Nel senso che se l’andazzo rimane questo, per l’Ue diventa quantitativamente preoccupante il tempo perso rispetto a quello che ha davanti di realizzazione compiuta in senso politico.
Per qualcuno, non da oggi, questa è una politica pessima, perché non serve a risanare i conti pubblici, né a fare ripartire l’economia (la crescita). Al massimo serve a sopravvivere a qualche scadenza elettorale o referendaria. A tirare a campare, anche se pare di capire non sia utile neppure più a questo, visto l’esito del recente voto amministrativo tedesco.
Ciò su cui non si decide è se sia preferibile accettare la linea teutonica di una riduzione in tempi brevi di deficit e debiti pubblici, sperando che risanati i bilanci torni l’ottimismo e l’economia riparta alla grande. Oppure se sia meglio sospendere il patto di stabilità il tempo necessario per spingere la ripresa, con una decisa riduzione delle tasse e con un programma energico di investimenti pubblici. Si incorrono espressioni come “ci vuole una scossa”, un piano Marshall, un nuovo New Deal come ai tempi di Roosevelt dopo la grande crisi del ’29. Altro che continuare a contenere col bilancino il rapporto deficit – Pil sotto il tre per cento.
E’ chiaro che questa seconda via significa fare nuovo debito. Hai voglia a dire keynesianamente che poi dall’imponente e virtuoso circuito di lavoro, reddito, consumi e produzione, allo Stato tornerebbero per via fiscale le risorse per ripianare i conti, ma per un paese come l’Italia che nell’improbabile disciplina olimpica di indebitarsi è costantemente da medaglia, il solo pensiero di allargare i cordoni della borsa è più che comprensibile che faccia venire l’orticaria a più d’uno. Fa oggetivamente cascare le braccia lo slogan dei pugni sul tavolo (ce lo ricordiamo?), sbraitata a vanvera da pezzi di classe dirigente in evidente stato confusionale e dai trascorsi politici (e personali) marchiati dall’imperdonabile disinvoltura nell’amministrare il denaro pubblico.
E però continuare con la filosofia dello zero virgola – del Pil, del deficit, dei margini di flessibilità, della quota investimenti da escludere dal computo del patto di stabilità – sembra chiaro che non si va da nessuna parte. Come dimostra il fatto che con questa ricetta ben poca strada si è fatta dallo scoppio della grande crisi sul finire dello scorso decennio (tranne gli interessi di pochi).
Ma perché non si decide mai per una strada o per l’altra e si rimane in un pantano capace solo di prolungare un’agonia, il cui esito pare già ampiamente scritto? Agonia di un progetto, al cui servizio persino il simbolo di Ventotene è ridotto a un liturgico e cinico fondale.
I motivi sono tanti naturalmente. Politico, anzitutto, di un’Europa in perenne indecisione fra un assetto intergovernativo e uno compiutamente federale.
Ma forse c’è un motivo, non spesso ricordato, che può essere la base di tante conseguenze.
Luciano Gallino in un’intervista il 5 maggio 2011 puntò il dito sul modello di neoliberalesimo. Fin dalla fine degli anni trenta, ricorda il sociologo italiano scomparso nel 2015, economisti della scuola neoliberista si riunirono a Parigi per un progetto di rinnovamento del capitalismo. Crearono vere e proprie fabbriche di pensiero, fra cui la Mont Pelerin Society (Svizzera 1947). Le conferenze Bilderberg (dal paesino olandese dove ebbero origine nel 1952) avviarono un’elaborazione ideologica e politica mirata a fare breccia nei media e nelle università. “Direi – disse Gallino – che la dottrina neoliberale diviene dominante nelle università. Il 90, se non addirittura il 98 per cento dei corsi universitari di economia dagli anni Ottanta/Novanta in poi sono orientati in senso fortemente neoliberale e si basano su postulati come “il privato produce qualsiasi cosa in modo più efficiente che non il pubblico”, e così via”.
Un’ideologia potente quindi, rivestita di una corazza impenetrabile e diventata l’unità di misura delle politiche economiche di governi, capi di stato e cancellerie.
Una lettura che trova conferma nell’analisi di Sebastian Dullien e Ulrike Guérot (Il Mulino 4/2013).
Per i due studiosi tedeschi il chiodo fisso di Angela Merkel è l’espressione tipicamente germanica di tale scuola di pensiero. L’ordoliberalismo, come viene chiamata questa declinazione, trova il suo punto centrale nell’opporsi, tra l’altro, all’intervento nel normale andamento dell’economia, respingendo “il ricorso – scrivono – a politiche fiscali e monetarie espansive per stabilizzare il ciclo economico in una recessione ed è, in questo senso, anti-keynesiano”.
Un pensiero che avrebbe esercitato una potente influenza, tanto che sarebbe “corretto affermare – aggiungono – che oggi la maggioranza degli economisti accademici tedeschi si definirebbe liberale”.
Secondo questa dottrina, molto in breve, per ripristinare una situazione perfettamente concorrenziale basterebbe che ciascuno facesse i propri compiti a casa, che significa tagli al disavanzo, conti pubblici in ordine, rispetto del Patto di stabilità e Fiscal compact. Da qui anche lo scetticismo con cui si guarda al programma di acquisto dei titoli da parte della Bce.
E pensare che lo stesso John Mainard Keynes si definiva un liberale e ricorda Edmondo Berselli nel suo libro “Sinistrati” (2008), che l’economista britannico una volta prese la parola a Cambridge nell’anno di grazia 1926 per dire che se noi riusciamo a portare a zero i salari, non solo a ridurli, la disoccupazione per miracolo scompare, perché tutti hanno interesse a impiegare manodopera che non costa nulla. Il problema è che con le tasche vuote dei lavoratori crolla la domanda aggregata.
Come dicono gli animal spirits delle teorie neoliberiste più ardite, affamare il cavallo può essere una soluzione, dove per cavallo s’intende quella sanguisuga dello Stato, ma se il cavallo stramazza la musica cambia.
Il problema è che se sono vere queste analisi, c’è da vincere una battaglia ancor prima culturale e scientifica, che politica.
Il dubbio è se c’è tempo sufficiente a disposizione per partire da così lontano, perché la politica si convinca che è giunto il momento di cambiare passo. Ammesso che la politica conti ancora qualcosa.

Ferrara, 15 settembre 2016

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).


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