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Sempre più convinto proustianamente del valore dei “nomi”.
Possibile che ci siano due Matteo? L’uno che indossa la felpetta nera e l’altro che s’incorona signore indiscusso dell’Italia delle meraviglie?
Possibile che il B. nazionale affidi ogni decisione alla Maria Rosaria: busto robusto, labbra a canotto gonfiato, capelli da tredicenne scossi da scatti improvvisi mentre fa strada guardandosi addietro e precedendo il Signore della Terra di Mezzo.
E le due Deboreh (h finale of course)? L’una a difender con contenuto furore friulano l’operato del Matteo Uno; l’altra più in ombra ma pur ugualmente “incattivita”.

S’allontana nell’epurazione il rumor di ferraglia del drighignìo dei denti della Daniela leggermente appannato mentre l’urlo del Genovese si fa fioca eco di un tempo trionfale. Ma imperterrito nel “doppio” creato da Crozza e da lui ormai indivisibile, il Brunetta (qui vale il cognome e non il nome) avvolto in sciarpette di seta minaccia sfracelli dopo aver guardato con occhio furbetto l’intervistatore. Con il viso che esprime eterno stupore il prode Orlando scende dall’Ippogrifo/Presidenza per controllare il luogo degli amori di Angelica e Medoro ma nulla gli vale ascoltar le gesta della regina e dell’umile fante raccontate dai pastori/parlamentari.
E dai profondi meandri di memorie recenti s’alza e si diffonde nell’emiciclo una canzonetta ai suoi tempi assai celebre il cui ritornello ossessivamente recita: “E Pippo, Pippo non lo sa” mentre Speranza, ultima spes, cerca di salvare l’unità.
Se sapessi scrivere, che bel romanzo mi piacerebbe imbastire! Un racconto che si svolge nell’Itaglia terra di navigatori della politica e degli intoccabili.

A nulla valgono le dure prese di posizione del pastor delle greggi Pd che dichiara asseverativamente (avverbio fuori moda ma meglio dell’impronunciabile “assolutamente”) che con la fiducia o la va o la spacca e la tragicommedia volge al peggio con i forbiti e vibrati discorsi dei pentastellati mentre il dio Saturno/Bersani mangiator dei figli confabula con la Rosy e pensa a quale metafora affiderà il suo messaggio fatto di vangeli apocrifi.

Poi bruscamente sei riportato in terra. Dalla violenza della natura leopardianamente indomabile. E e pensi alla retorica politica sulla tragedia del Nepal e ti accorgi come direbbe lui, Giacomino, della “vanità” del tutto e ti domandi: “Ma a che gioco giochiamo?”

Li vogliamo bombardare o accogliere i rifiuti della terra? Il pastore d’anime a ‘Ferara’ dichiara che ogni turbamento e scivolamento dall’ortodossia è colpa, e unica colpa, dell’Illuminismo e reprime con severa dittatura ecclesiale l’opera dei don Bedin di turno. Un biondo invasato mostra in tv la sua fabbrica protetta da cartelli simil-veri che impediscono l’accesso ai Rom. Dentro, una sbalorditiva serie di armi con bersagli per esercitazioni e, secondo l’elegante idioma delle valli lombarde, dichiara che i rom vadano “fori dalle balle”. Per avvalorare la sua tesi chiama uno spaurito operaio dell’Est che non risponde e ti guarda come se fosse nel cerchio degli ignavi.

Si pensa ancora che il nostro paese possa recuperare il senso di una dignità che è soprattutto chiarezza. Alte s’alzan le strida dei gabbati possessori delle azioni Carife. E come in un cerchio dantesco si rincorrono le parodie il cui significato suona: “Riproduzione scadente e ridicola di ciò che una cosa, una persona o un’istituzione dovrebbe essere in realtà”. Mai spiegazione suona più veritiera: le parole-le cose. Ma qual è la ragione per cui una banca diventa una parodia? Le spiegazioni sono molteplici e tutte valide. Ormai siamo rassegnati al fatto che almeno non si tocchi il personale e il lavoro. Chiedere una banca del territorio fa parte di quella parodia che da troppo tempo coinvolge tutta la città intera con un misto di maldestra e pericolosa fiducia nelle magnifiche sorti e progressive.

Troppo severo il giudizio? Troppo figlio di una visione “intellettuale”?
Può darsi.
Eppure da lontano l’eco rimanda una parola, ripetuta ossessivamente che si perde tra le valli in fior, dall’Alpi allo Stretto. Eticaaaaaa.
Siamo ancora in tempo a trasformare l’eco non in un nome vano senza soggetto ma più umilmente in una direzione di vita e di comportamento.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it