Dissacrante. Letteralmente dissacrante. E’ la sensazione che si ricava dalla visione di “Messa in scena”, spettacolo in programmazione (anche per i due prossimi sabato) al Teatro Off di Ferrara. Il rito è l’oggetto della vivisezione del gruppo di artisti del laboratorio Assemblea, capitanati da Marco Sgarbi con la regia di Giulio Costa. Sul palco si esibiscono una quindicina di artisti che assumono il ruolo di partecipanti a una funzione religiosa. La prima parte dello spettacolo mostra il loro straniamento, l’essere insieme e al contempo isolati, soli con se stessi.
Gli attori ascoltano immobili, occhi sbarrati, le parole della litania, poi meccanicamente si dispongono in fila per ricevere, quasi come automi, l’ostia – il corpo di Cristo – da un sacerdote assente, surrogato dal pubblico in sala, al quale mostrano – in uno dei rari momenti di intenzionale autenticità – l’espressione del loro sconcerto per una comunione attesa ma impossibile.
Nell’interludio fra la prima e la seconda parte gli attori, che fungono da convenuti alla liturgia, lasciano la scena e tornano a sedere fra il pubblico, mentre Sgarbi assume la funzione del celebrante, non prima di avere provveduto ad allestire lo spazio fintamente sacro della chiesa. Fintamente, poiché a scena aperta si assiste alla costruzione degli oggetti che rappresentano la sacralità del rito: il pulpito, l’altare, i paramenti della chiesa e del sacerdote ricavati da ordinari scampoli di stoffa e infine la trasmutazione del vino di fiasco in vin santo. Insomma, l’infingimento disvelato, l’oggetto di culto ricondotto dall’ascritta spiritualità alla comune materialità.
E con la successiva celebrazione della messa si torna a uno stato di solitudine, stavolta del sacerdote, che si trova ‘in scena’ senza i fedeli, a riempire da solo uno spazio vuoto, a pronunciare perciò invocazioni inaudite. Si svolge, dunque, una sorta di gioco di atomizzazione, attraverso il quale gli elementi tipici del rito vengono scomposti e sezionati, mentre le cose risultano ricondotte alla loro tangibile materialità costitutiva, per mostrare, ad esempio, che i paramenti del luogo sacro celano semplici assi di legno inchiodati, con la diligenza di un falegname, dal sacerdote che è messo di Dio e al contempo uomo e come tale opera. E il suo agire è perizia, semplice perizia. Umano, troppo umano, si potrebbe affermare pensando a Nietzsche.
Il gioco di specchi e rimandi si sviluppa fra parvenza e sostanza, ed emerge ciò che usualmente celato (o rimosso) genera l’effetto sacro: oggetti comuni in se, insignificanti, trasfigurati in simboli del culto con semplici applicazioni di ingegno artigianale.
Così, durante i preparativi, una comune bottiglietta di plastica per l’acqua sta accanto all’ampolla benedetta, in una volutamente stridente giustapposizione fra sacro e profano, come pure l’ordinaria bottiglia da sfuso è il recipiente dal quale sgorga nell’ampolla stessa il “sangue di Cristo”. Mentre il prete, sotto la tonaca, indossa una banale camicia azzurra che nulla ha di trascendente, se non la vaga allusione celeste!
Però i chiodi confitti a rinsaldare il legno della mensa sono tre, simbolico richiamo cristologico, a segnalare l’ambivalenza dei gesti.
“Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” enuncia il sacerdote, un’esortazione che non pare rivolta agli immaginari partecipanti alla funzione (assenti dalla scena), ma direttamente al pubblico presente in sala; il lungo silenzio d’attesa che segue a generare imbarazzo, impazienza, fastidio, conferma i grandi tempi scenici dell’ottimo Sgarbi che, esaurito il compito sacerdotale, prende commiato con espressione d’uomo, rapita e perplessa, svuotata d’ogni forza. Seguono applausi ‘scossi’.
Lo spettacolo nell’insieme convince per la sua capacità di suscitare emozioni e di interrogare il pubblico. Il collettivo di Ferrara Off ha il coraggio di sperimentare e riesce a provocare lo spettatore.
In quest’opera la sacralità è ricondotta al rito e il rito alla sua funzione primigenia, quella di rassicurare, come se, da un nostro atto, dipendesse la capacità di controllo su ciò che in realtà sfugge al nostro pieno dominio.
Il bisogno inappagato della ricongiunzione col Padre, simboleggiato dalla mancata comunione, appare peraltro specchio e metafora di questo nostro tempo storico, al di là delle implicazioni religiose, poiché il senso di anomia è diffuso e la condizione di orfani vale anche per i laici che hanno smarrito radici ideali e valori comunitari fondativi.
“Messa in scena”, insomma, funziona e colpisce.
Il dibattito finale, che come d’uso si svolge dopo le rappresentazioni al teatro Off coinvolgendo artisti e pubblico in un confronto stimolante, conferma anche in questo caso come le opere d’arte assumano vita propria e rivelino valenze che spesso travalicano le intenzioni dell’autore (o, per restar in metafora, del loro creatore). E questo epilogo post-testuale risulta in fondo emblematica metafora nella metafora di un’opera che è gioco d’ombre e di specchi, il cui corollario non poteva essere altro che un così è se vi pare, a ribadire che ciascuno interpreta, pirandellianamente, secondo il proprio sentimento.
La sintesi è che si tratti, comunque, di una provocazione ben riuscita, alla quale forse è mancato solo il colpo (di teatro) conclusivo, per esempio con un plateale disvelamento quale la ‘svestizione’ dell’altare e la riconduzione del vin (santo) al prosaico ‘aceto’. Un chiusura però che Sgarbi, sorprendentemente, rivela essere stata parte di una precedente rappresentazione dell’opera, corroborata in quel caso proprio dall’azione di un sacerdote che, ripresi panni umani, ripiega i cenci e prima di abbandonare il proscenio si disseta bevendo un vino che, a recita sacra conclusa, è tornato ad essere ormai solamente quel che è: vino e nulla più. Un contro-senso che conferisce il tocco in più alla Messa in scena.
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Sergio Gessi
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