EFFETTI COLLATERALI DELLA RIVOLUZIONE DIGITALE
meno democrazia, più diseguaglianza e altri inconvenienti sulle persone.
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La nuova rubrica di ferraraitalia LA VECCHIA TALPA (Shakespeare, Marx) ospita testi, saggi, riflessioni, approfondimenti, supplementi di indagine. A questo contributo di Franco Mosca, e agli altri che seguiranno in questa rubrica, non abbiamo imposto i limiti di lunghezza che solitamente richiediamo ai nostri redattori e collaboratori. Una lunghezza limitata sicuramente facilita la lettura, ma in certi casi non è proprio possibile essere brevi.
L’invito ai lettori che, come tutti noi, vanno di fretta, è quello di prendere nota del titolo e dell’autore, metterli in attesa, e affrontare i testi della rubrica LA VECCHIA TALPA quando ci capita una mezz’ora buca (di giorno o di notte, al sabato e domenica), una frazione di tempo libero, uno spazio di silenzio per approfondire un argomento e soddisfare una curiosità.
(Francesco Monini)
In elettronica e in informatica, digitalizzazione è il procedimento per rappresentare/riprodurre le diverse caratteristiche fisiche di suoni, immagini e oggetti, che traduce in forma digitale un segnale analogico. La parola digitale viene dall’inglese e significa “cifra”. Spesso tale “cifra” è espressa attraverso un codice binario, ossia come una sequenza di 1 e di 0, quindi da stati del tipo acceso/spento. È opinione diffusa che con tale sistema si possa, non solo emulare, ma addirittura potenziare e ampliare in modo esponenziale le capacità del cervello umano che rischia di diventare obsoleto.
La questione è aperta, personalmente credo che oggi la diversità del pensiero, dei sentimenti e dell’azione degli oltre 7,5 miliardi di persone viventi oggi sulla terra non possa essere adeguatamente rappresentata. Una buca nella sabbia, come ricorda S. Agostino, non può contenere il mare.
Occorre considerare che attualmente il sistema digitale, nella stragrande maggioranza delle situazioni, viene implementato attraverso procedimenti semplificatori e riduttivi posti in sequenza da tecnici che agiscono secondo una logica (razionalità) limitata e intenzionale. Un’azione influenzata dai valori e dalle credenze più o meno diffuse e, soprattutto, dall’orientamento dei committenti che finanziano il prodotto digitale per venderlo sul mercato.
Gli obiettivi prioritari, i valori trainanti e che determinano le scelte di utilizzo sono di tipo economico (riduzione dei costi e aumento dei profitti). Chi progetta è un tecnico informatico che spesso non possiede un’approfondita conoscenza sia dei temi organizzativi, sia delle caratteristiche peculiari dell’azienda in cui il prodotto digitale andrà ad inserirsi. Il prodotto è standard anche se, in molti casi, può essere adattato alle richieste particolari del committente.
Se reifichiamo i processi di digitalizzazione perdiamo la ricchezza della diversità, dell’irrazionalità, dei sentimenti, dell’intuizione, della capacità/possibilità di deviare dagli standard che spesso aprono nuove opportunità.
Si può avanzare l’ipotesi che, attualmente, una delle modalità utilizzate per uniformare gli atteggiamenti umani, per portarli in sintonia con i processi di digitalizzazione, sia insita nei videogiochi diffusamente, forse anche morbosamente, utilizzati particolarmente dalle nuove generazioni. In essi, spesso con l’uso della musica, dei colori e di “effetti speciali” appropriati, si opera una netta distinzione tra negativo e positivo, tra male e bene, tra buoni e cattivi e si inducono identificazioni acritiche, lontane dall’analisi introspettiva del sé e degli altri e dall’analisi complessa e variegata del mondo che ci circonda. Si diffonde così una visione “infantile” della realtà, dicotomica, liquidatoria, semplificata [sulla rigidità mentale leggi qui].
Multimedialità, ipertestualità e interattività sembrano offrire un senso di ricchezza e di potenziale onnipotenza alle generazioni assuefatte all’uso di strumenti digitali e l’industria, probabilmente, può trarne vantaggio, almeno nel breve periodo.
Prima d’interrogarsi sull’impatto futuro delle tecnologie digitali, occorre riflettere sull’attualità ed osservare cosa accade oggi quando queste tecnologie vengono inserite nei contesti di lavoro.
Sulla base dell’esperienza e delle analisi svolte nei luoghi di lavoro, l’inizio del processo di digitalizzazione si presenta come una forma evolutiva dei ‘vecchi’ mezzi di comunicazione, delle procedure e dei flussi di produzione. Viene ‘fotografata’ in sequenza l’attività degli operatori per riprodurla con i sistemi digitali su macchine ed impianti; nella prima fase, superate le problematiche d’inserimento, sembrano ridursi le difficoltà e la fatica legate alle attività di acquisizione, elaborazione, diffusione delle informazioni e delle istruzioni operative. La procedura digitale le ha ‘incamerate’ in uno schema operativo; l’operatore le dà o le deve dare per acquisite e può/deve procedere senza indugi o perplessità. Non sono ammessi ‘rifiuti’ o atteggiamenti di diffidenza che possono rallentare la produzione.
Il ‘gioco’ deve essere accettato così come proposto a priori, compresi gli eventuali aspetti di limitata discrezionalità previsti o delineati dalla procedura, dallo schema, dagli standard dei flussi informativi già predisposti (magari con opzioni multiple codificate). A volte, anche per lunghi periodi, sono gli stessi committenti, i dirigenti o i semplici operatori – specialmente nelle aziende pubbliche – a nutrire diffidenza e a mantenere attivi e paralleli i tratti essenziali delle precedenti procedure analogiche, vanificando i presunti benefici dei sistemi digitalizzati introdotti.
Un aspetto che viene spesso trascurato è l’inserimento, sempre più massiccio, della tecnologia digitale (in genere acriticamente si assume una logica tayloristica) nel cosiddetto ‘lavoro d’ufficio’ e, soprattutto, nel lavoro incentrato sulla relazione tra le persone. Ad esempio, tra un tecnico del sociale e gli utenti che chiedono l’accesso ad un servizio o una qualche forma di aiuto.
Si vedano, in questo caso, i protocolli istituiti in campo sanitario che prevedono una codifica e una gerarchia dei controlli e delle cure, stilata in base ai costi, sottraendo autonomia e discrezionalità ai medici coinvolti nel processo di tutela della salute dei pazienti. O ancora, gli indicatori che stimano la ‘distanza’ dal lavoro delle persone disoccupate, distanza da cui dipendono gli interventi di sostegno/supporto standardizzato di tipo socio-economico.
Gli indicatori e i protocolli sono utilizzati per stilare graduatorie e procedure d’intervento, controllate con strumenti digitali standardizzati, a vari livelli dai vertici dirigenziali del sistema. In questi casi si toglie spazio alla relazione con l’utente, i rapporti si fanno meno umani, asettici, impersonali. La procedura ‘obbliga’ a seguire un percorso, aumenta la ‘distanza’, riduce il coinvolgimento tra operatore e utente. Si limita, o si evita, l’empatia relazionale utile a comprendere al meglio la condizione dell’utente, in un’ottica sempre più virtuale delle relazioni.
Si tenta di ricondurre dentro parametri standard l’estrema variabilità delle situazioni personali, l’uomo nella sua complessità deve star dentro alla procedura (il sistema non è più in grado di fornire risposte personalizzate adeguate, non consente progetti mirati sulle persone, di seguire nel tempo i cambiamenti psico-fisici ed economico/sociali degli utenti, in modo da adattare l’azione; nel migliore dei casi si interviene a posteriori seguendo le procedure standardizzate).
Ci si dimentica che gli oggetti e, in primo luogo le problematiche delle persone, affidate al sistema digitale, possono assumere una parvenza di “realtà” e si standardizza ciò che non è standardizzabile.
Sembra si stia affermando una crescente commistione tra ‘reale’ e ‘virtuale’ che riduce la capacità di discernere della mente umana; gli operatori si deresponsabilizzano sotto l’egida della procedura (come se questa fosse una norma di legge); si è portati ad accettare che le prescrizioni digitali conducano ad una “conoscenza oggettiva” delle situazioni, ad un trattamento equo e corretto dell’utente; anzi, a volte, l’appello alla procedura arriva a rappresentare per l’operatore una sorta di “difesa”, una sorta di barriera protettiva rispetto alla variabilità della situazione umana da esaminare e/o da tutelare.
Masse crescenti di persone sono e saranno indotte/costrette ad accettare l’utilizzo acritico della tecnologia digitale che ha permesso la definizione della procedura e la standardizzazione del problema. Per non rischiare l’emarginazione, al cospetto dei “valori” e dei “miti oggettivi” e virtuali imposti dalla digitalizzazione se ne deve accettare l’uso e la valutazione sintetica che essa produce.
Si vedano, in proposito, le difficoltà, l’imbarazzo, il rifiuto di molte persone, spesso non più giovanissime, verso l’utilizzo intensivo e quotidiano delle tecniche digitali (dal “semplice” pagamento dei ticket, all’imposizione del possesso di una e-mail personale per accedere ai servizi). E’ una specie di violenza indotta ogni giorno sulle loro “credenze”, sull’abitudine a tenere sotto controllo un mondo tangibile/relazionale che ha offerto per anni un quadro di certezze.
Chi attiva questo tipo di processi di digitalizzazione ha creato e crea dipendenza/sudditanza, soprattutto in chi non la conosce, non la usa o non la vorrebbe utilizzare. Si tratta di aspetti ritenuti trascurabili, tributi da pagare al “progresso”, alla modernità, ma dietro queste forme di imposizione si nasconde spesso arroganza, presunzione, indifferenza, spinte violente verso l’allineamento e l’omologazione.
Chi l’adotta punta a “semplificare”, parla di “oggettiva imparzialità” e nasconde i suoi obiettivi dietro una pretesa scientificità delle procedure digitalizzate, senza interrogarsi se esistono alternative più rispettose della situazione delle singole persone coinvolte, se un diverso approccio nella progettazione, nell’implementazione, nella verifica e nella regolazione della tecnologia digitale può condurre ad un’adeguata tutela del benessere umano.
La digitalizzazione appare sempre più un sistema di controllo e di “incameramento” standardizzato e funzionale dell’attività delle persone, mentre potrebbe rappresentare un supporto ai processi di decisione delle persone (di tutte le persone), qualora se ne valutassero correttamente limiti e potenzialità, riconsegnando il potere di scelta ai soggetti coinvolti e rifiutando qualsiasi forma di reificazione.
Con la crescente diffusione delle “tesserine digitali”, in genere accettate dal consumatore a fronte di futuri sconti sugli acquisiti, ad esempio, si viene censiti dalle catene di distribuzione che puntano a “fidelizzare” il consumatore; così, in tempo reale, chi le dirige viene informato sui nostri acquisti e, quindi, sui nostri gusti e sulle nostre preferenze. Per loro diventa possibile conoscere le caratteristiche dei nostri consumi, classificare i consumatori per target ed orientare i sistemi di produzione sparsi sulla terra; per il sistema virtuale (l’imprenditore senza fabbrica) è possibile scegliere i potenziali produttori presenti sulla terra in base al rapporto qualità/prezzo e rispondere alle tendenze dei consumi in un’ottica di costi/benefici/profitti, aumentando il potere di controllo sui vari contesti sociali.
Anche nel sistema industriale sembra riprodursi questo dualismo ‘integrato/marginalizzato’ (dentro o fuori) e il rapporto costi/benefici/profitti è e sarà, probabilmente, il principale criterio di scelta per l’eventuale introduzione/ammodernamento delle tecnologie digitali (in genere non saranno introdotte se il costo del lavoro per unità di prodotto risulterà inferiore ai costi di implementazione, di ammortamento/obsolescenza dei nuovi sistemi informatizzati). Laddove i salari sono molto bassi, infatti, i metodi di lavoro spesso rimangono “tradizionali”, in genere si riutilizzano tecnologie obsolete dismesse dai paesi a reddito più elevato (ne è un esempio il settore dell’abbigliamento).
Appare, quindi, legittimo porsi alcune domande: ci saranno ancora, in futuro, luoghi di produzione gestiti con tecnologie analogiche, con lavoratori più o meno emarginati dal cosiddetto “mondo evoluto”? Oppure sarà solo questione di tempo e la tecnologia digitale, così invasiva, cablerà tutto il pianeta? Le macchine digitali sostituiranno in tutto o in parte gli uomini nei vari luoghi di lavoro, arrivando persino ad auto progettare se stesse? Gli uomini sostituiti in tutto o in parte dalle macchine cosa faranno per assicurarsi un reddito? Senza un reddito adeguato come faranno a spendere e consumare? Crolleranno i consumi perché pochi se li potranno permettere? Che senso avrà realizzare un sistema produttivo che può produrre in modo continuo ed esponenziale se sarà scomparsa la platea dei consumatori? Avrà un senso, per chi comanda, esercitare il proprio potere su un sistema di macchine che si auto-progettano e si auto-producono? Forse avremo un pianeta con pochi uomini che si scambieranno macchine digitalizzate sempre più complesse o pezzi di ricambio delle stesse al fine di preservare una logica di onnipotenza?
Forse, guardando il futuro in modo positivo, se si verificasse una ‘vera rivoluzione’ grazie allo sviluppo di una ‘nuova’ tecnologia digitale, gli uomini liberati dal lavoro avranno più tempo per curare le relazioni interpersonali, per seguire le vicende politiche, per acquisire maggiore consapevolezza sulle questioni ecologiche, sui bisogni di preservare il nostro pianeta, sulla ricerca di altre forme di vita nell’universo, sulla ricerca di risorse naturali presenti su altri pianeti. E’ difficile ipotizzare come sarà la nostra vita futura, ma alcune tendenze sono già ben delineate e si possono brevemente descrivere.
Ad esempio, la ‘finanziarizzazione’ del pianeta (legata al modo con cui si sono progettati e diffusi i sistemi digitali) sta ampiamente condizionando le scelte economico-sociali di tutti i governi democratici e non. I centri decisionali delle varie nazioni si spostano dalle sedi istituzionali, si internazionalizzano, s’allontanano dai possibili controlli della cittadinanza, appaiono anonimi, spersonalizzati, virtuali.
Ad esempio, le agenzie di rating ed il numero ristretto dei multimiliardari scommettono sul successo e/o sul fallimento dei Paesi, orientano gli investimenti e le speculazioni, determinando spesso le condizioni di vita delle popolazioni. Viene, quindi, spontaneo chiedersi: se si va verso una concentrazione della ricchezza e del potere, come sarà progettata, introdotta e regolata, oggi e in futuro, la tecnologia digitale?
Appare evidente che l’accesso alle informazioni, quelle su cui si fondano le decisioni finanziarie e produttive della elite economica, è e sarà riservato a pochi (ai vari livelli della struttura verranno assegnate ed elaborate solo le informazioni/conoscenze necessarie a far funzionare il sistema). Alla stragrande maggioranza della popolazione terrestre probabilmente rimarrà l’illusione, legata alla facilità tecnica di accesso, alla presunta democrazia della rete, nel variegato magma delle informazioni, a cui tutti i possessori di un reddito adeguato potranno accedere, di essere “liberi” di scegliere tra le varie opportunità offerte dall’industria dei consumi digitalizzata.
L’attuale strutturazione sociale di accesso alla tecnologia digitale, infatti, distingue nettamente la massa dei fruitori dalla élite dei progettisti, i progettisti dai committenti, i committenti dai proprietari dei mezzi di produzione, i controllori del sistema finanziario dai finanzieri, in una logica gerarchico funzionale della gestione delle informazioni e del potere. La “rete di controllo” assomiglia alla ragnatela del ragno che si installa nei punti strategici per catturare informazioni ed elaborare eventuali risposte o procedere con indifferenza.
Si continuerà a confondere la velocità e la relativa facilità di accesso alla “rete” con la democrazia, la divulgazione con la conoscenza, l’informazione con le effettive capacità/possibilità di utilizzo della stessa, in un contesto sempre più difficile da interpretare e da affrontare/gestire nel quotidiano. Già oggi si avverte un senso di “impotenza” e di “inadeguatezza” di fronte a decisioni, definite “oggettive” o “logiche”, calate dall’alto; chi gestisce il potere di aprire o chiudere i luoghi di produzione è spesso un “soggetto virtuale”, anonimo che si avvale di manager e mira soprattutto all’aumento dei profitti.
Nonostante si abbia l’impressione che tutto sia a portata di mano (la cultura, lo spettacolo, l’informazione) ci si sente spossessati della capacità/possibilità di decidere del proprio destino; è sempre più difficile proiettarsi verso mete future, anche per l’insicurezza del “posto di lavoro” e delle fonti di reddito, l’instabilità delle relazioni interpersonali (si vedano i dati sulle separazioni matrimoniali e sulle convivenze). Sembra prevalere una visione edonistica della vita, si tende a non fare figli, a ridurre i vincoli, a fuggire le responsabilità. Si tratta di aspetti che andrebbero approfonditi e che certamente non sono riconducibili in modo diretto alle scelte di digitalizzazione. Queste, però, invece di aiutarci, sembrano contribuire a destabilizzarci.
Molti uomini, anche di cultura, hanno fatto scelte di “limitare i danni”, tentando di contenere il più possibile l’utilizzo delle tecnologie digitali (ad ogni accesso si forniscono informazioni a chi controlla il sistema ai vari livelli), ma rischiano l’emarginazione. Spesso ricercano ambiti di “nicchia”, solidarizzano con altri uomini che hanno le loro stesse perplessità/sensibilità. Una sorta di resistenza che appare in bilico fra tolleranza/compatimento/marginalizzazione in rapporto alla massa crescente dei digitalizzati acritici, impegnati nei vari contesti sociali.
La rivoluzione digitale, così veloce e pervasiva, appare una rivoluzione nella continuità, non altera i rapporti di potere (anzi rafforza quelli esistenti), non sta portando ad una redistribuzione delle ricchezze, non sta rafforzando o ampliando il benessere delle persone, nonostante sia potenzialmente in grado di farlo. La velocità, con cui sembra auto-alimentarsi e la pervasività, con cui sembra diffondersi, in stretto collegamento con le scelte di investimento del sistema industriale e finanziario, hanno surclassato le capacità/possibilità di gran parte delle persone di “gestire il gioco” in modo consapevole.
Come nel caso dell’energia atomica, non si tratta di maledire coloro che l’anno scoperta, ma di progettarne e realizzarne un utilizzo adeguato ai fabbisogni delle persone. Basta un breve elenco per intravederne gli aspetti positivi: ridurre gli incidenti sul lavoro, garantire a tutti adeguate condizioni di vita, prevenire e combattere malattie, ridurre gli sprechi, ridimensionare l’inquinamento del pianeta. Credo che la tecnologia digitale possa dare un fondamentale contributo in questa direzione. Siamo noi che, singolarmente e/o insieme, dobbiamo imparare a governarla, mettendo al centro il benessere delle persone.
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Franco Mosca
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