LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Educazione o istruzione? Susanna Tamaro e l’Italia col torcicollo che guarda al passato
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Dovrebbe venire il dubbio che a pensare sempre secondo i propri costrutti mentali si finisce per ribadire anziché rinnovare. Voglio dire che non ne esce nulla di nuovo.
Ti leggi la Tamaro e ti ritrovi catapultato nella dimensione dei laudatores temporis acti, mai possibile che per andare avanti si debba tornare indietro? Un paese non può continuare ad avere il torcicollo, continuare a guardare alle sue spalle, quello che non sappiamo fare è vedere cosa ci può stare davanti a noi, che non può essere il passato ma solo il futuro. Un paese che sovverte i tempi come minimo resta paralizzato. E pare che sia quello che sta accadendo al nostro.
I mali della nostra scuola, a leggere la Tamaro sul Corriere della Sera dell’otto gennaio scorso, sarebbero imputabili al fatto che l’istruzione ha soppiantato l’educazione. Detta così uno è portato a pensare finalmente, uno che sa, uno che è istruito, poi è in grado anche di gestire con giudizio e autonomia se stesso, è per forza di cose educato dall’uso del sapere. No, non è così per la Tamaro, che poco capace di avere fiducia nel prossimo e di uscire dai propri stereotipi altro non è in grado che riproporre l’armamentario della scuola tradizionale.
Che una scuola debba essere identica al passato non depone a favore della scuola stessa come luogo di studio, di ricerca, di riflessione critica, di esercizio della mente, di crescita e di rinnovamento. Gli studenti non devono partecipare, gli studenti devono sedere e ascoltare con rispetto come si faceva una volta. E guarda caso la scuola che funziona è sempre quella che c’è stata mai la presente, secondo l’illustre pensiero della nostra scrittrice.
Suggestionata dalla lettura del saggio di Adolfo Scotto di Luzio, Senza educazione, pubblicato da il Mulino, Susanna Tamaro, con poca originalità, incolpa della decadenza scolastica l’ingresso nelle aule scolastiche della rivoluzione digitale. È come dire che l’uso della biro ha rovinato l’educazione rispetto ai tempi in cui sui banchi di scuola si usavano le cannette con il calamaio.
È un vezzo tutto italico quello degli intellettuali che hanno sempre nostalgia del passato, il passato meglio del presente, che ha solo il difetto di essere qui e ora o di essere trascorso da troppo poco. Ma tutti i presenti prima o poi sono destinati a tradursi in passato e, dunque, a diventare migliori anche loro, secondo la logica di chi guarda sempre all’indietro.
La scuola di oggi sarebbe buonista e classista nello stesso tempo, a detta del pensiero illuminato della Tamaro, perché non educa ma, se va bene, istruisce solo. L’istruzione ha bisogno di educazione, perché se non si forgiano i caratteri e le condotte l’istruzione è vuota, priva di orientamento. Qui subito, per quanto mi riguarda, scatta una reazione di insofferenza. Perché dietro alle affermazioni della nostra scrittrice, per cui il carattere e la personalità dei giovani vanno plasmati con l’insegnamento e con l’esempio, c’è un’idea delle ragazze e dei ragazzi che così come sono non vanno bene, perché non sono come noi, gli adulti, gli insegnanti, minori non solo di età, ma minori in tutti i sensi.
Al di là di quello che può pensare la Tamaro e il suo vate di riferimento, Adolfo Scotto di Luzio, crescere non significa essere modellato intellettualmente e moralmente da un adulto colto, crescere significa, anche etimologicamente, creare se stessi, disporre degli strumenti per costruire la propria personalità, il proprio intelletto in piena autonomia, senza condizionamenti decisi da altri, essere posti nelle condizioni di realizzare se stessi, come detta la nostra Costituzione, senza condizionamenti educativi che non siano il prodotto delle proprie scelte.
Difficile da digerire? Può darsi. Ma pensare di entrare a scuola per incontrare persone che non accetto per come sono, perché le considero inferiori a me, che solo potranno essere salvate dal mio verbo di adulto colto, penso che sia l’idea peggiore di educazione e di istruzione che di questi tempi si possa coltivare. Per non dire estremamente fallimentare e pericolosa.
Quando poi si parla di educazione ci si dovrebbe sempre porre il problema di chi educa gli educatori, di che natura è l’educazione degli educatori. L’obiettivo del Dewey di educare per la società deve sempre fare i conti con la natura della società che educa, spesso replicante di se stessa.
La questione non è, dunque, per nulla semplice, non ammette facili scorciatoie e se si parla di scuola la complessità si moltiplica in maniera esponenziale. Sul discorso dell’istruzione nel nostro paese avremmo bisogno non del déjà-vu ma di intelligenze nuove capaci di affrontare le difficili sfide del presente, senza rintanarsi nel passato. I tempi sono decisamente nuovi e il passato non ritorna.
Il problema vero è se la nostra scuola, in un’epoca in cui le opportunità di apprendimento si sono dilatate come mai prima, perdendo di centralità, sa misurarsi con questa nuova realtà, se sa istruire in maniera autentica, o se invece è rimasta impantanata in mezzo al guado tra educazione e istruzione, tra passato e presente, come invece io credo.
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Giovanni Fioravanti
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