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Ferrara film corto festival

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Il libero mercato e il ritorno all’800, quando il libero mercato aumentò le disuguaglianze. Il rapporto tra disuguaglianza e libero mercato secondo le dottrine scientifiche dei padroni del XVIII secolo per migliorare il mondo del XXI secolo (a loro uso e consumo).

Una delle grandi decisioni o, meglio, delle grandi raccomandazioni che si sono dati i 27 leader europei, a margine degli incontri di Roma e al fine di rilanciare la corsa all’abbattimento delle frontiere e di contrastare, almeno ideologicamente, il nascente protezionismo trumpista, è il sostegno che dovrà venire, sempre più convinto, al libero mercato.
Frase lunga, lo so, ma altrettanto lunghi gli articoli che ho letto a sostegno di questo proclama, tra cui in particolare uno veramente angosciante sul sole24ore che elencava i benefici del libero scempio, in termini soprattutto di posti di lavoro e di aumento delle entrate da parte, ovviamente, dei paesi occidentali ed europei.
Ed è infatti proprio questa parte della popolazione mondiale, questa parte geografica, che usufruisce in quasi totale esclusiva del libero mercato, dell’espansione attraverso le esportazioni. Ma che tipo di dottrina economica è quella del libero mercato?
Si potrebbe dire, sintetizzando, che è quella che vede come un successo la situazione greca, oppure l’abbassamento del costo della vita in Portogallo, oppure il fatto che si possa pensare di andarsene a vivere in Thailandia con la pensione italiana. Tutto questo indubbiamente è un successo per l’Occidente ma anche di quei Paesi non occidentali che ne hanno adottato i principi, penso al Giappone o, ai giorni nostri, alla Cina dei benestanti che impazza in Africa.
In effetti non tutto il mondo usufruisce del benessere provocato dal libero mercato, la maggior parte dei benefici vanno a noi e per noi intendo quel fortunato gruppo di paesi di cui sopra e di cui almeno io so di far parte, e non ne sono certamente fiero.
Il libero mercato è quella dottrina che vede come un successo, ma non lo dice, che milioni di persone nei cosiddetti paesi del terzo mondo, o poveri, non riescano a sfamarsi con il grano che pure producono, perché non possono trattenerlo ma devono darlo alla multinazionale di turno che lo lavora per altri e che una volta da questi lavorato non riescono a ricomprarsi. Oppure non riescono a vestirsi con quel cotone che pure producono per lo stesso processo del grano.
Il libero mercato. Si cerca di dare una nobiltà ad una dottrina nata a fine ‘700 e che ha infestato l’800 per giustificare il colonialismo britannico, olandese, francese, belga e di quei paesi tanto anglofoni quanto “affidabili”, in termini finanziari, del nord Europa. Che sostituì quella che non era per niente una dottrina economica, ma delle scelte dei mercanti che “guardavano ai propri interessi” (per dirla alla Adam Smith) e condizionavano i sovrani durante il periodo detto del “mercantilismo” e a cui siamo incredibilmente tornati, neppure tanto velatamente.
Ma certo un popolo civile deve sempre giustificare il male che fa agli altri, ai più deboli, deve giustificare il fatto di creare miseria e fame e quindi bisognava che qualche studioso illuminato desse una parvenza di logica, di scientificità al malaffare di stato ed ecco i “classici”. Ecco Smith, Ricardo e Malthus. Ecco che la depredazione diventa dottrina, nasce il liberismo.
Una dottrina che per vivere ha bisogno di abbattere le frontiere, e per questo i proclami del folle Trump sono visti come il rosso dai tori infuriati, di far girare i capitali insieme ai derivati e che il debito non si estingua mai perché è la carne dei macellai e senza non si può creare schiavitù totale o far lavorare gli africani a 10 dollari a settimana oppure i greci a 400 euro al mese o i portoghesi a 350 oppure giustificare i mini job in Germania e chiaramente il jobs act in italia.
Eh sì, il libero mercato si sta avvicinando sempre di più ai nostri diritti e sta globalizzando anni di lotte sindacali, distruggendo il futuro e sempre più ci consiglia di non fare figli e affidarci ai migranti, già abituati alla sofferenza.
La globalizzazione fu interrotta una volta dalle conseguenze della grande crisi del ’29 che si chiamarono fascismo, nazismo o nazionalismi e poi, dopo la seconda grande guerra e i suoi infiniti morti senza nome, sindacati, figli dei fiori, Woodstock, i Beatles e i Rolling Stones, la libertà e perché no, sovranismo individuale e degli stati ma con rispetto delle transazioni internazionali. Regole vere e utili, insomma.
Ma in quel periodo il capitalismo aveva un’anima dettata dall’esigenza della divisione del mondo in blocchi contrapposti. Oggi non abbiamo bisogno di quell’anima o di maschere che sono cadute insieme al nefasto muro. Non ne ha bisogno la finanza sfrenata e i suoi servi possono scrivere delle gioie del libero mercato e delle follie di Trump e dei nazionalismi affioranti come il male del futuro.
E questo mentre non abbiamo più futuro, sostituiamo ai figli i migranti, i papà con le mamme, la libertà con il debito e osserviamo soddisfatti morire di fame chi produce grano e girare nudo chi produce cotone, almeno finché non saremo noi. E i 27 vengono a Roma a rilanciare il libero mercato, il neoliberismo, le dottrine ottocentesche ammantate di nuovo, nello stesso Paese in cui l’Istat certifica l’aumento della povertà assoluta e non troviamo i soldi per ricostruire dopo i terremoti.

Ferrara film corto festival

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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