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Chi inquina ha un vantaggio economico dall’inquinare e non vuole smettere, a meno che non gli si riconosca il danno economico e gli si diano dei soldi. Insomma, chi inquina richiede una compensazione per smettere. Ma come? Chi inquina, non si dovrebbe punire? Non dovrebbe pagare? Forse in una società diversa, non in questa. Anzi, chi è inquinato è disposto a pagare per non essere più inquinato (dunque penalizzato due volte), lo ha detto tanti anni fa Ronald Coase con un suo lucido, ma drammatico teorema: vi è uno stretto collegamento tra l’assegnazione dei diritti e il ruolo del mercato, e soprattutto vi è una tendenza ad avvicinarsi ad una soluzione, mediante la contrattazione, che porta alla soddisfazione delle parti (ma non il rispetto della giustizia). Il teorema si basa sulla definizione degli obiettivi da parte dei detentori di diritti che giustificano i propri bisogni che scambiano con i diritti sul mercato. Per chi inquina il massimo profitto si ha quando il beneficio marginale netto è zero (infatti se è positivo conviene continuare a produrre e inquinare per aumentare il beneficio). Eppure tanti anni fa l’Unione europea ha fissato il suo primo principio: chi inquina paga.
Anche questo è un effetto della globalizzazione. Eppure Stigliz (nel suo libro “La globalizzazione e i suoi oppositori”) ci aveva avvisato. Si, è vero, la società civile globale ha migliorato le condizioni di salute e il tenore di vita, ha cambiato il modo di pensare della gente e ha servito gli interessi dei Paesi industrializzati. Ma ci dice anche che questo principio non funziona per i molti poveri del mondo e pone problemi per gran parte dell’ambiente, ripercuotendo l’instabilità a livello globale. Ce ne siamo accorti.
In fondo, Cina e India rappresentano il 40% della popolazione mondiale, hanno la maggiore crescita annuale del Pil e sono i Paesi che consumano più risorse del pianeta (e per smettere chiedono altri vantaggi). Inoltre, l’economia dell’ambiente è materia recente perché, fino a poco tempo fa, le risorse ambientali venivano erroneamente considerate disponibili in quantità illimitate, e non venivano incluse nelle analisi economiche.
Il concetto di valore è infatti legato alla disponibilità d’uso, e il bene ambientale, in quanto di natura pubblica, sfugge al diritto della proprietà. Il quarto principio della termodinamica ci ricorda che ogni processo di produzione e di consumo delle merci lascia la natura impoverita di alcuni componenti non rigenerabili e non rinnovabili. Dovremmo rivedere alcuni principi, in fretta. La capacità dell’ambiente di ricevere tutte le esternalità del mercato si stanno riducendo (per questo sta aumentando il valore delle risorse naturali e delle risorse rinnovabili).
Dovremmo passare dallo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, all’utilizzo ottimale delle risorse ambientali recepite con la logica del diritto ma anche del dovere. E’ inevitabile affrontare il tema di uno sviluppo economico sostenibile. Ciò che soddisfa un desiderio è un beneficio, ma ciò che lo riduce è un costo. L’economia ambientale pone allora importanti questioni di diritto collettivo e di etica.
Gli individui hanno anche dei bisogni, non solo dei desideri. L’economia ambientale richiede di considerare sia il consumatore, mosso da desideri individualistici, sia il cittadino, supportato da argomentazioni morali e da motivazioni etiche. Per questo il sistema economico-ambientale si deve basare sulla riduzione degli sprechi. Pensiamoci.

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Andrea Cirelli

È ingegnere ed economista ambientale, per dieci anni Autorità vigilanza servizi ambientali della Regione Emilia Romagna, in precedenza direttore di Federambiente, da poco anche dottore in Scienze e tecnologie della comunicazione (Dipartimento di Studi Umanistici di Ferrara).


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it