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“Quella che vi offro è una fotografia di un piccolo grande mondo miracolosamente vivo”: così il regista Gianfranco Pannone presenta il suo film-documentario Ebrei A Roma.
Un viaggio tra passato e presente della comunità ebraica più antica del mondo occidentale, catturata nella sua essenza attraverso la voce di David, Giovanni e Micaela. Tre generazioni, per molti aspetti differenti, eppure legate dal filo rosso dell’orgoglio per la propria cultura e il forte senso di identità.
Abbiamo intervistato Pannone al teatro di Villa Torlonia, in occasione dell’evento Ebrei a Roma. Una città e un popolo, realizzato dalla Casa dei Teatri e della Drammaturgia Contemporanea di Roma, dalla Direzione Generale per il Cinema del MIBACT, in collaborazione con Luce Cinecittà, Centro Sperimentale di Cinematografia, Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). L’evento è stato la prima tappa dell’articolato progetto di valorizzazione e promozione del documentario italiano “Cinema di periferie”, che vedrà susseguirsi proiezioni e presentazioni in vari teatri romani.
Pannone, dal suo documentario emerge che nel ghetto si manifesta di più il senso dell’identità. Questo può essere un insegnamento per tutti noi?
Sì, sono convinto di questo. Oggi abbiamo superato un po’ la mitizzazione della globalizzazione e stiamo riscoprendo che apparteniamo tutti a un mondo con il proprio dialetto, con le proprie tradizioni e con la propria cultura. In questo la comunità ebraica può essere un vero e proprio modello perché, per motivi ovviamente storici, oltre che religiosi, è molto legata alle proprie radici. Così anche io, quando penso al bisogno di sentire un senso di appartenenza alla mia città, Napoli, penso spesso agli ebrei. Quella ebraica, infatti, è una comunità che ha sofferto tanto e che non ha mai dimenticato, dentro alla globalizzazione, di essere molto legata a livello comunitario.
Identità e religione, come dialogano la cultura ebraica e la cultura laica occidentale?
Questo è un tema delicato, che molto spesso crea un grande equivoco perché si confonde l’essere israeliani con l’ebraismo. L’equivoco nasce dal fatto che la cultura laica occidentale in generale tende a separare la religione dallo Stato, in base al principio libera Chiesa in libero Stato, e che, spesso, ci si dimentica che l’ebraismo è fatto di tante facce: esiste l’ortodossia ebraica, che ha anche risvolti politici, ma ci sono anche gli intellettuali ebrei, che rappresentano un pungolo, una critica a un certo tipo di società. Quello che non sopporto è questo tendere da destra e da sinistra a confondere l’ebraismo con Israele. I pregiudizi duri a morire dovrebbero lasciare spazio alla rivisitazione di una cultura che ci offre un insegnamento tale da non poter essere relegato solo a un discorso di ortodossia.
Ebrei a Roma è un viaggio tra passato e presente della comunità ebraica più antica d’occidente. E il futuro?
A Roma oggi la comunità ebraica ha una importanza maggiore di quanta ne avesse trenta, quaranta, cinquanta anni fa. Voglio dire che oggi continua a dare un contributo alla cultura superiore rispetto al passato. Questo si deve senz’altro anche alla figura del rabbino Toaff, che è stato un po’ un viatico per trasformare la cultura ebraica romana, diventata un punto di riferimento anche per i non ebrei. Credo che oggi l’ebraismo sia molto interessante in quanto concretizza il modello culturale che potremmo definire “glocal”, ossia il sentire di appartenere al mondo, globalmente, e l’essere legato alla propria cultura, localmente. In tal senso la cultura ebraica attuale rappresenta un modello per il futuro.
Lei è entrato da estraneo nel ghetto ebraico. Quali difficoltà ha incontrato e quali sono stati i momenti più emozionanti?
Il mio viaggio alla scoperta della comunità ebraica romana è durato due anni e non è stato un viaggio facile. Rompere il ghiaccio, girare in sinagoga, parlare con le persone, sono state tappe cui sono arrivato piano piano. Il momento più emozionante è stato il dialogo tra il padre David e il figlio Giovanni, dove ho assistito a un vero e proprio rovesciamento dei ruoli generazionali, con un figlio che è più ortodosso del padre. David riconosce un po’ timidamente di aver mangiato carne di maiale, è uno degli ebrei romani, quelli chiamati per scherzo ebrei apostolici romani, mentre il figlio Giovanni sente di dover difendere una cultura che ancora oggi il padre ha difficoltà a difendere. E poi mi hanno emozionato la liturgia, il rito del matrimonio ebraico, i canti di Evelina Meghnagi, il coro della sinagoga. In particolare, mi ha colpito la tradizione musicale ebraica, da cui traspare la sofferenza, il dramma storico di un popolo, che ha vissuto sulla sua pelle non solo l’orrore della Shoah, ma anche l’orrore di vivere ai piedi del Vaticano, esperienza che è un eufemismo definire per niente facile. Ecco, non va mai dimenticato che l’orgoglio e anche quella sorta di chiusura, riscontrabile in una parte della cultura ebraica romana, sono motivati da quello che di terribile questo popolo ha vissuto e attraversato senza sosta lungo i millenni.
Focalizzando le riprese sui particolari lei rende omaggio anche alla bellezza e al rispetto per l’arte della comunità ebraica. Un invito a riscoprire e ad amare di più i tesori di una città come Roma?
Beh, si dice che il più “romano de Roma” sia l’ebreo ed è vero. Credo che oggi essere “romani di Roma” passi anche attraverso l’orgoglio di appartenere a un ghetto, che mantiene delle vestigia antiche romane. I primi difensori di tutto questo sono proprio gli ebrei. Riguardo alla attenzione ai particolari, devo dire che mi affascina molto l’iconografia ebraica, i simboli che si possono trovare al cimitero ebraico del Verano, dentro al quartiere, in ogni casa. E’ come se dietro a ogni simbolo, così come dietro alle celebrazioni di grande impatto scenografico, come la festa dell’Hanukkah, ad esempio, ci sia il calore che gli ebrei sanno esprimere per aver sofferto troppo. E’ un calore che nasce da una sofferenza perpetrata nel tempo, che non ha pari nella storia dell’uomo, un calore che chiede massimo rispetto, così come certe manifestazioni che possono sembrarci di chiusura o di distacco. E’ questo modo particolare di vivere, ricordare, celebrare la sofferenza che dovrebbe spingerci a scoprire davvero la storia degli ebrei, oltre la Shoah.
Che cosa rappresenta per lei la Giornata della Memoria dopo questo lavoro?
La Giornata della Memoria è una ricorrenza tragica, ma anche una festa perché non è vero che nel ricordo doloroso la faccia debba essere solo contrita. Bisogna leggere la rinascita anche nel ricordo doloroso: il popolo ebraico è rinato, gli è stato permesso di avere un Paese, un territorio dove ci sono più culture diverse. Un territorio unico, dove mi è capitato più volte di andare. Ebbene, quando sono tornato, ho detto di essere stato in Israele, Palestina e Terra Santa perché quel territorio è fatto di due Paesi ed è anche il luogo del cristianesimo, cui mi sento di appartenere.

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Chiara Bolognini

Adora scoprire gli invisibili, dare voce a chi rimane nascosto, perché dentro tutti noi c’è sempre un mistero da svelare e qualcosa da imparare, condividere, amare. Di mestiere è giornalista e si occupa di comunicazione e marketing. E’ anche una counselor e una life coach, in formazione permanente. Adora il vino rosso, i tortelli con la zucca, la parmigiana, gli alberi, Mozart, Gaber e Paolo Conte. Ma soprattutto gli aquiloni e i palloncini che vagano, soli, nel cielo.


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