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Il costituzionalista Michele Ainis (Corsera 4 marzo) ha chiamato in causa niente meno che la legge Basaglia per riferirsi agli emendamenti dei deputati Giuseppe Lauricella e Alfredo D’Attorre, entrambi Pd, presentati durante la discussione attorno alla legge elettorale.
Sullo sfondo la posizione del Nuovo centrodestra (Ncd) di Alfano: sistema di voto e riforma del Senato devono essere un unico pacchetto. Punto sul quale, invece, Forza italia non ci perde il sonno.
Differenza non da poco, visto che una volta approvato l’Italicum a qualcuno potrebbe venire in mente di andare alle urne già nel 2014, si è insinuato, perché gli conviene.
Ipotesi vista come fumo negli occhi da Ncd che, appena nato nel tepore dell’incubatrice parlamentare, potrebbe sparire nelle urne prima ancora di dire “mamma”. Per questo Angelino e compagnia vogliono legare l’Italicum al cambio della Costituzione perché, richiedendo tempi più lunghi, diventa più concreto lo scenario del termine legislatura alla sua scadenza naturale, il 2018, e cioè il tempo necessario per non ridursi ad una scorreggia nello spazio, come capitato fin qui a chiunque sia uscito da Arcore sbattendo la porta.
Di fronte allora al dilemma se rimangiarsi l’accordo con il Cavaliere (pur essendo all’opposizione gli ha promesso sostegno per la riforma del sistema di voto e della Costituzione), oppure ammazzare il neonato Ncd (che invece è maggioranza di governo), Renzi ha trovato negli emendamenti Lauricella e D’Attorre la via per salvare capra e cavoli, anche se con qualche scoria.
Il primo tendeva a subordinare l’entrata in vigore dell’Italicum alla riforma del Senato, il secondo a limitare l’applicazione del nuovo sistema di voto solo alla Camera, mentre per palazzo Madama, finché ci sarà, varrà il proporzionale mutilato dalla Corte.
Alla fine ha prevalso l’emendamento D’Attorre e così, con l’Italicum, avremo due sistemi di voto, uno per ciascun ramo del Parlamento.
Ora, forse, si capisce meglio perché Ainis abbia citato la legge che nel 1978 chiuse i manicomi: “C’è la prova – scrive – che il seme della follia ha ormai attecchito nelle meningi dei nostri parlamentari”.
E a proposito di follia, a nessuno con la testa sul collo verrebbe in mente di andare alle urne in queste condizioni, con la quasi certezza di trovarsi due maggioranze parlamentari diverse nelle due Camere e la prospettiva dell’ergastolo delle larghe intese.
Anche se di questi tempi ormai tutto è possibile, persino mandare un cannolo siciliano nello spazio (su QN del 5 marzo scorso).
Comunque questa situazione istituzionale sarà destinata a rimanere fino a quando i senatori non voteranno per la propria abolizione, il che, come ha detto Beppe Severgnini, è come chiedere ai pesci rossi di votare per l’abolizione dell’acqua.
Come se non bastasse, piovono critiche come delle bombe sull’Italicum.
Il politologo Gianfranco Pasquino è certo che la legge sia da buttare.
Le liste chiuse, anche se corte, continuano a non convincere. Esattamente come la presenza di più soglie di sbarramento nel caso le liste si presentino da sole o coalizzate.
Poi c’è la questione delle candidature multiple che paiono un vero e proprio scandalo: addirittura fino ad otto circoscrizioni.
Tra l’altro, sull’altare delle liste chiuse e delle multicandidature si è consumato anche il recentissimo psicodramma delle quote rosa.
Rimarrà pure un solo ramo del Parlamento, ma a qualcuno continua tremendamente a piacere l’idea che sia composto da nominati.
E così, siccome l’ipotesi più semplice dei collegi uninominali non si addice all’Italia bizantina, in molti sono tornati a suonare, alla fine inutilmente, il valzer delle preferenze, storicamente responsabili nella prima repubblica di traffici e accordi ben poco da rimpiangere.
Ma la mazzata peggiore arriva dal suo stesso ideatore.
Scrive, infatti, Roberto D’Alimonte (Sole 24 Ore 2 marzo), che troppe mani sono intervenute sulla sua idea e che bisogna rimettere mano al premio di maggioranza.
Intervento ritenuto necessario per scongiurare la possibilità, in caso di ballottaggio, di una maggioranza con premio pari a 321 seggi.
Il problema è che a Montecitorio il 50 per cento più uno è a quota 316 e così la stabilità e la governabilità sarebbe appesa a soli cinque voti di margine.
Non c’è che dire, un bel pasticcio se le sorti di un paese devono essere appese ai vari Razzi, Scilipoti, Turigliatto e compagnia cantante.
Ma, in fondo, l’impressione è che la vera partita si giochi sulla figura di Matteo Renzi.
Che sia un giocatore di poker è chiaro. Quello che è meno chiaro è se in mano abbia una scala reale servita oppure una coppia di sei.
Detto altrimenti, il Pd sul suo nuovo leader si sta di nuovo squartando e questioni come l’accordo con Forza Italia, quote rosa, preferenze, scelte di politica economica e chissà quanto ancora, sono cavalcati come pretesti strumentali per riaprire ferite mai chiuse.
Il Pd, che rassomiglia più alla saga tv dei Borgia piuttosto che ad una famiglia politica, dovrà decidersi se essere un partito, con l’accento decisamente più sull’articolo indeterminativo che sul sostantivo.
D’altra parte non è difficile immaginare che in casa azzurra più d’uno si freghi le mani ad assistere alla cottura a fuoco lento, peraltro nella propria pentola, del principale, e unico, antagonista sulla scena politica.
Per non parlare della stessa pentola.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).


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