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Dosso Dossi e le mutevoli anime del Rinascimento italiano

Articolo pubblicato il 2 Settembre 2014, Scritto da Anna Maria Baraldi Fioravanti

Tempo di lettura: 5 minuti


Intorno al 1531, il Castello del Buonconsiglio a Trento è un affollato e vivace cantiere supervisionato a distanza dall’ambizioso committente, il principe vescovo Bernardo Cles (1485-1539), intenzionato a trasformare l’antico presidio imperiale, dominante la città fin dal 1255, nella sua residenza privata. Figura eminente sul piano religioso e temporale (nel 1530 otterrà la dignità cardinalizia grazie all’appoggio imperiale) e in rapida ascesa sulla scena politica europea, il neo cardinale porterà nella città trentina una calda ventata di arte rinascimentale, “moderna” e internazionale, connotando la propria corte di straordinario lusso e bellezza. Accanto, infatti, alla fortezza medievale costruisce tra il 1528 e il 1536 una nuova ala con le caratteristiche di domus magna, di palazzo rinascimentale all’italiana con cortile quadrato su cui affaccia la loggia affrescata da Girolamo Romanino (1531), sull’esempio della romana villa della Farnesina. Come il modello romano, il loggiato assume primaria importanza nell’organizzazione degli spazi interni, occupati dal vasto appartamento del cardinale e caratterizzati dal sontuoso gusto decorativo di affreschi, fregi marmorei e arredi, descritti dal medico di corte Pietro Andrea Mattioli nel poemetto in ottave Il Magno Palazzo del Cardinale di Trento pubblicato nel 1539.

Tuttavia ciò che sta più a cuore al neo Cardinale è l’intera decorazione pittorica del palazzo che desidera realizzata in fretta e all’altezza delle più importanti corti europee. A tale scopo nel 1531 sollecita con insistenza il trasferimento, dalla Corte di Ferrara, di Dosso Dossi e del fratello Battista. Era a conoscenza della perizia dei due pittori e delle loro invenzioni di temi profani, legati al mito, alla storia e alla natura, e nel momento in cui arrivano a Trento i due artisti estensi giocano un ruolo dominante. Tanto che il loro incarico andò progressivamente espandendosi dall’Andito della Cappella, alla Stua de la Famea, alla Camera del Camin Nero, alla Sala Grande, alla Libraria, per un totale di diciannove stanze dove eseguono soffitti e fregi ad affresco in un brevissimo periodo, se nel giugno dell’anno successivo (1532) Dosso prende congedo dal Clesio lasciando il fratello Battista a concludere i lavori.

E’ a Trento che il linguaggio decorativo di Dosso e Battista, già allenato al classicismo ‘postmoderno’ dalla lezione di Giulio Romano a Palazzo Te a Mantova e di quella di Tiziano a Ferrara, si accresce di nuova audacia e originalità, come è evidente nell’elegante soffitto della sala del Camin Nero, decorato a grottesche e squarciato da un oculo centrale in cui fluttuano giocosi putti; o ancora, nel fregio del Volto avanti la Cappella, primo ambiente o corridoio della residenza clesiana, dove nel giovane Mercurio che si sporge da una lunetta, ritorna quella tipica interpretazione dell’antico che connota l’affascinante dipinto Giove, Mercurio e la Virtù o Giove pittore di farfalle (1523-1525, Cracovia Wawel Royal Castle), vera ‘superstar’ della mostra attualmente in corso nelle sale del Castello, che intesse uno stretto dialogo tra affreschi e dipinti.

Ideata dalla Galleria degli Uffizi di Firenze, nell’ambito del progetto “La città degli Uffizi”, con la curatela di Vincenzo Farinella, docente d’arte moderna all’Università di Pisa, insieme a Lia Camerlengo, Francesca de Gramatica e Lucia Menegatti, la mostra alterna il criterio cronologico ai confronti storico-artistici per soffermarsi, nelle ultime sale, sull’indagine ritrattistica. Partendo dagli esordi ferraresi, racconta attraverso quaranta opere (circa) uno dei più straordinari pittori del ‘500 italiano e del fratello Battista, spesso sottovalutato dalla critica contemporanea.

Il percorso ha inizio sotto l’occhio vigile delle divinità dell’Olimpo che decorano le lunette dell’Andito della Cappella: in una leggera architettura in stucco si affacciano Cibele, Apollo, Diana, Mercurio, Minerva, intensi ritratti che rimandano a modelli antichi come il Laocoonte, cui s’ispira la figura di Vulcano.

Nella Stua de la Famea sono esposti gli esordi di Dosso Dossi, dai giovanili Il bagno (1512) del Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma, e Donna e Satiro (1515-1516, Firenze, Palazzo Pitti) – le cui calde atmosfere e il tocco pastoso rivelano l’influenza di Giorgione – al piccolo Riposo nella fuga in Egitto (1516-1517, Firenze, Uffizi) e alla Madonna con il Bambino detta La Zingarella (1516-1517, Parma, Galleria Nazionale), dove emerge la conoscenza del paesaggio nordico di Altdorfer e di Dürer. Analogo contesto paesaggistico esalta le favole di Fedro leggibili nelle lunette sottostanti il soffitto (di grande modernità pittorica è l’episodio della favola della volpe e della cicogna).

E’ tuttavia nella Camera del Camin Nero che sono raccolti gli esiti più felici dell’arte di Dosso, ad iniziare dall’Apollo musico (Roma, Galleria Borghese) a Giove pittore di farfalle (1523-1525, Cracovia Wawel Royal Castle), che trovano riscontri nelle fisionomie delle quattro virtù cardinali dipinte dai due fratelli agli angoli del soffitto.

Nel corso del terzo decennio i soggiorni a Roma di Battista e l’arrivo a Mantova di Giulio Romano contribuiscono alla svolta classicista dei due fratelli, spingendoli ad aggiornare il proprio linguaggio verso forme più nette, figure imponenti e vigorose, e cromie più fredde, come nel San Sebastiano (1526 c.a., Milano, Pinacoteca di Brera), nel Risveglio di Venere (1524-1525, Bologna, Palazzo Magnani) e nell’Allegoria mitologica o Storia di Callisto (1529, Roma, Galleria Borghese), favole pastorali classicheggianti che si inseriscono in un paesaggio panoramico, detto parerga, tipicamente dossesco, celebrato da Giovio e da Vasari.

Con la serie delle mandorle provenienti dal soffitto della Camera della letto di Alfonso I nella via Coperta a Ferrara (1520-1522, Modena, Galleria Estense), lo stile dei fratelli si accresce di modi narrativi ben distanti dall’equilibrio classico per indirizzarsi verso l’estro e la bizzarria decorativa, culminante nell’ultima opera in mostra Allegoria di Ercole o Bambocciata (1536-1540, Firenze Galleria degli Uffizi), satira corrosiva della vita di corte, seppure nascosta tra le pieghe dell’allegoria.

La mostra Dosso Dossi. Rinascimenti eccentrici al Castello del Buonconsiglio offre dunque ampi spunti di riflessione sulle mutevoli anime del Rinascimento italiano.

La mostra, a cura di Vincenzo Farinella con Lia Camerlengo, Francesca de Gramatica e Lucia Menegatti, ha luogo al Castello del Buonconsiglio a Trento, ed è aperta fino al 2 novembre 2014.

* Anna Maria Fioravanti Baraldi è storica dell’arte e giornalista pubblicista. Già professore a contratto di Storia dell’arte moderna presso l’Università di Ferrara, ha pubblicato molti saggi sull’arte ferrarese ed emiliana del Cinquecento. E’ autrice della monografia più completa su Benvenuto Tisi detto il Garofalo, e dal 1990 è membro del Comitato Biennale donna, autorevole spazio espositivo dedicato alle donne artiste promosso dall’Udi.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani