“Je suis Charlie” è la frase scritta e ripetuta ovunque nei giorni seguenti all’attentato terroristico alla redazione parigina del giornale satirico Charlie Hebdo lo scorso 7 gennaio, che ha causato la morte di dodici persone e il ferimento di altre undici. Due giorni dopo, il 9 gennaio, un complice degli attentatori ha seminato ancora morte in un supermercato kosher della capitale francese, portando il bilancio della strage al totale di venti morti. Rivendicato dalla mano omicida di Al-Qaeda, è stato scritto che si è trattato dell’attentato con il più alto numero di vittime nella storia recente francese. Fra condanne e manifestazioni, da quei giorni l’Europa intera (e l’Occidente) si sta ponendo innumerevoli interrogativi, molti dei quali chissà quando avranno risposta. Fra questi, al netto della comprensibilissima ondata emotiva, c’è la questione fino a che punto sia giusto spingere la satira e quando si varca il confine della blasfemia.
Roberto Casati sul domenicale del Sole 24 Ore (15 febbraio) offre un piccolo vademecum sulla questione. “Chi difende – scrive – la libertà di espressione difende un veicolo, indipendentemente dal suo contenuto”. Si può legittimamente non essere d’accordo con i modi, i toni, i temi e anche la linea editoriale di un giornale, senza per questo rinunciare alla libertà d’espressione. Perciò si potrebbe dire, e senza contraddizione, “Je ne suis pas Charlie” e quindi “Je suis Charlie”. In altre parole: non sono d’accordo con quello che dici, né nel modo in cui lo dici, ma proprio per questo accetto e difendo il principio superiore della libertà della loro espressione.
Parere molto simile esprime Piero Stefani (Il Regno 1/2015). Lo spunto è la polemica espressa dal settimanale parigino contro l’arcivescovo di Parigi, con la scelta di mettere in copertina la scena di una Trinità in cui Padre, Figlio e Spirito Santo sono stati raffigurati mentre compiono atti omosessuali. “Quanto occorreva fare – osserva Stefani – era difendere senza remore la libertà d’espressione anche esercitando una libera critica al modo in cui quella libertà è stata usata”. Una linea che “addirittura rafforza – continua – la condanna della violenza omicida”.
Seguendo questo ragionamento scopriamo che c’è dell’altro. Le manifestazioni seguite all’orribile strage avrebbero prodotto una creazione di simboli assolutamente laici, che hanno eroso ancor di più lo spazio del sacro. “La morte, per tanto tempo vista come l’ultima roccaforte delle religioni – argomenta ancora Stefani – sta sempre più sfuggendo loro di mano. La matita ha sostituito la croce”. La risposta per le Chiese, quindi, non starebbe – da notare la chiusa – “nel tentativo, destinato a un inequivocabile scacco, di risacralizzare le società; il loro compito è di riscoprire la mite ed esigente autenticità del messaggio evangelico”. Riprendendo il filo del vademecum di Casati sarebbe dunque sul piano laico che va posto il dilemma fra blasfemia e incitazione all’odio. Irridere una figura ritenuta sacra da taluni è cosa diversa da irridere quelle stesse persone che credono in quella figura. Qui Casati chiama in causa un’idea di John Stuart Mill per distinguere offesa e danno.
Dissacrare la figura ritenuta sacra può ritenersi giustamente offensivo, ma sarebbe un danno se a quelle persone credenti fosse impedito o ostacolato il culto alla figura per loro sacra. La differenza è che il danno è sempre misurabile, quantificabile, mentre l’offesa è più imponderabile e riguarda la sfera delle sensibilità, nel frattempo diverse nella società contemporanea, complessa e di identità declinate sempre più al plurale.
E’ pur vero che le sensibilità vanno rispettate, ma è altrettanto vero che esse vanno rispettate tutte. Se il criterio su cui fondare il concetto di rispetto è di tipo dogmatico-veritativo di alcuni che credono in modo incontrovertibile in una verità, è facile prevedere che si vada, prima o poi, ad uno scontro con chi in quella verità non crede. E in mezzo c’è la libertà d’espressione, che deve valere – sempre – per gli uni e per gli altri.
L’ultimo problema, infatti, che affronta Casati nel suo vademecum è: desacralizzazione offensiva o sacralizzazione offensiva? Troppo spesso si dà per scontato che in gioco ci sia solo un tipo di offesa, quella di chi si ritiene offeso dalla dissacrazione del proprio spazio sacro. Ma dovrebbe essere tenuto in ugual conto che anche chi non crede può ritenersi offeso dalla pretesa di sacralizzare spazi della società e della convivenza che sono di tutti, sia pure nel nome di una verità suprema e superiore. La libertà d’espressione è uno di questi spazi che sono “sacri” proprio perché sono stati desacralizzati dopo una lunga storia, in Europa e nel pensiero occidentale, fatta di tanti errori, ferite e altrettanti dolorosi ritorni al passato.
Dopo Parigi tanti sono gli esiti e le ipotesi possibili, ma su una questione non è possibile cedere alla paura e arretrare nemmeno di un passo, perché in gioco è una conquista raggiunta, senza sconti, ad un prezzo salatissimo e, allo stesso tempo, lo strumento più efficace finora conosciuto per tenere insieme società sempre più al plurale: libertà e democrazia. Ecco perché, in fondo, siamo tutti Charlie e perché ha ragione Piero Stefani a dire che ogni tentativo di risacralizzare le società (sulla base di verità ultime sia religiose che laiche), è sempre un vicolo cieco. Per tutti.
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Francesco Lavezzi
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