Non c’è niente di più crudo e doloroso, nella storia delle donne, della violenza gratuita, efferata, indimenticabile, spesso inenarrabile, che esse hanno subìto nel corso di guerre e occupazioni in ogni epoca. Il corpo della donna è trincea, campo di battaglia, conquista, bottino, ricompensa e la violenza su di esso viene agita per colpire il nemico, fiaccare ogni resistenza. L’arma dello stupro è vecchia quanto la guerra, fatta dello stesso odio, della stessa brutalità, e riguarda donne di ogni fronte e appartenenza, un fenomeno presente nell’antichità e non certo esclusiva della storia contemporanea.
Nell’Antica Grecia era un comportamento ritenuto socialmente accettabile nelle regole di guerra e i guerrieri consideravano le donne bottino legittimo, utili come mogli, concubine, schiave o trofei del campo di battaglia.
I soldati romani esercitavano violenza sulle donne barbare, che non riconoscevano nemmeno umane, trattandole come oggetto da possedere, vendere al miglior offerente, esibire in pubblico. La rappresentazione di alcune scene di violenza rimangono scolpite sulla Colonna Aureliana a Roma, dove le donne delle popolazioni germaniche Marcomanni, Sarmati e Quadi vengono trascinate per i capelli, denudate e trucidate dai soldati armati di pugnale.
In tempi più vicini a noi, nel XX° secolo, le violenze sessuali sono diventate parte integrante delle strategie offensive e propagandistiche degli eserciti in guerra, a cominciare dalla I^ Guerra mondiale nell’avanzata dell’esercito austroungarico in Serbia e l’esercito tedesco in Belgio, accompagnata da stupri di massa.
Del secondo conflitto mondiale, ambientati in Italia, rimangono i racconti, le testimonianze, le tracce indelebili delle cosiddette “mongolate” e “marocchinate”.
Nel primo caso parliamo delle uccisioni e degli stupri sistematici su numerose donne di paesi e villaggi avvenuti sull’Appennino ligure-piemontese-emiliano e nell’Oltrepò pavese, nell’inverno 1944, quando i nazisti schierarono tra le file del loro esercito i denominati “mongoli”, costituiti da prigionieri calamucchi, uzbechi, georgiani, ucraini, arruolati dopo la caduta di Leningrado. Dolore, vergogna, paura hanno accompagnato le donne sopravvissute agli abusi, rendendo spesso faticosa la testimonianza e il ricordo. Il termine “marocchinate” conduce alla memoria scomoda degli abusi e delle violenze sulle donne del Basso Lazio e della Toscana meridionale, ma anche in Sicilia e Campania, nel maggio del 1944, da parte dei goumiers, i combattenti del V° Corpo d’Armata francese. “Zidouh ‘Lguddem! En avant!” era il grido di battaglia dei tabors, i reparti marocchini del Corps Expèditionnaire Français en Italie che raggelava il sangue tanto ai tedeschi quanto alle popolazioni civili di quelle zone sulla linea Gustav. Più di 60.000 le vittime degli abusi e della violenza al loro passaggio, ma le cifre rimangono ancora incomplete.
Lo stupro di guerra va ben oltre l’etichetta di “effetto collaterale” che si vorrebbe appioppargli, giustificandolo con le condizioni innaturali dei soldati: esso costituisce in realtà il massimo sfregio con cui marchiare il nemico attraverso la violenza assoluta sulla sua donna, portatrice di continuità vitale, di futuro per le nuove generazioni.
Diventa annientamento, umiliazione, contaminazione e violazione per dimostrare supremazia di un popolo su un altro, un crimine che non può essere legittimato per nessuna ragione al mondo. Solo di recente, dopo le atrocità in Bosnia e Ruanda, la comunità internazionale ha riconosciuto la peculiarità dello stupro di guerra da un punto di vista giuridico, dichiarando crimine contro l’umanità le violenze alle donne in contesti bellici.
In Ruanda, tra aprile e luglio 1991, centinaia di migliaia di donne tutsi furono sottoposte a ogni sorta di violenza, massacrate a colpi di machete e bastoni cosparsi di chiodi dagli squadroni della morte hutu. Nella ex Jugoslavia lo stupro etnico fu usato su larga scala sulle donne di etnia diversa come “pulizia etnica” vergognosa.
Il riconoscimento dei crimini e stato un percorso difficile, cominciato con il lavoro dei Tribunali Penali Internazionali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, istituiti nei primi anni ’90, quando gli avvenimenti nei due Paesi scossero il mondo per particolare efferatezza delle indicibili violenze commesse negli stupri di massa perpetrati con premeditazione e con la finalità di annientamento delle donne e di un’intera parte della loro comunità.
Nell’aprile del 2019 il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha riconosciuto la violenza sulle donne in Paesi in conflitto come arma di guerra.
Cover: Friedensstatue, Giappone,1920 (wikimedia commons)
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Liliana Cerqueni
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