DOMICILIARE È MEGLIO:
è possibile una terapia anticovid più sostenibile?
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La notizia è passata in secondo piano, ma lo scorso 8 aprile il Senato ha approvato una mozione all’unanimità (212 favorevoli, 2 astenuti, 2 contrari) che chiede al Governo di sostenere il protocollo delle cure domiciliari antiCovid. Quel protocollo che aveva sperimentato con successo (e proposto) Luigi Cavanna, primario di oncologia a Piacenza, sin dal marzo 2020 (13 mesi fa).
Nessuno può restituirci le vite, ma finalmente si prende atto che abbiamo sbagliato a seguire l’unica via “ospedale-terapie intensive”, mentre bisognava sin dall’inizio usare la medicina territoriale, andando a casa dei pazienti, curandoli subito con ecografo portatile, saturimetro e farmaci antinfiammatori, antibiotici, eparina e cortisonici (come faceva Cavanna). Oggi, solo oggi, anche il Senato ritiene queste cure appropriate ed efficaci.
Ciò dovrebbe dare un impulso a quella ricostruzione della medicina territoriale (smantellata negli ultimi 30 anni) che costa meno, evita di intasare gli ospedali ma soprattutto cura meglio “sull’uscio di casa” ed è più umana.
In una intervista di Alessandro Barbano per conto dell’Huffington Post [Vedi qui] il primario di Piacenza, Luigi Cavanna, pioniere delle cure precoci a domicilio, spiega come “aspettare il virus barricati dentro un ospedale non ha funzionato” ed è forse questa la principale causa dell’altissima mortalità italiana (13% in più di quella brasiliana, dove non c’è una sanità pubblica efficace ed equamente distribuita).
Avremmo dovuto curare a casa con farmaci tradizionali, come ha fatto Cavanna sin dal marzo dell’anno scorso?
Un dubbio legittimo che però non è mai stato preso seriamente in esame dal Ministero della Salute e dal relativo Comitato Tecnico Scientifico (CTS) che hanno preferito tenere in considerazione solo la strada della grande ricerca scientifica mondiale. Una posizione difficilmente criticabile sul piano socio-politico e che dava certo maggiori sicurezze nell’inevitabile confronto internazionale e con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
In sostanza le linee guida di Ministero e CTS si sono basate su studi completi di fase 3 pubblicati su riviste scientifiche (il livello più accurato di validità riconosciuta) e hanno tralasciato per scelta strategica quelle esperienze cliniche pratiche che, pur di nicchia, erano promettenti. Oltre a Cavanna, dal marzo dello scorso anno si erano mobilitati centinaia di medici (assieme a un gruppo Facebook di oltre 300mila iscritti) con uno schema terapeutico apprezzato in molti paesi esteri, veicolato anche da IppocrateOrg (che operava a Mauritius e poi in Madagascar e ora in 30 paesi nel mondo) con uno schema terapeutico che veniva sempre più apprezzato in molti paesi esteri (India,…) e che solo oggi è finalmente al vaglio del Ministero della Salute e che contestava le linee guida ufficiali “tachipirina e vigile attesa”. Pare infatti che sia soprattutto l’attesa che favorisce la replicazione del virus (come ha scoperto l’Istituto Negri) e che l’efficacia delle cure dipende dalla loro precocità (nei primi 7 giorni). Che vuol dire: ai primi sintomi si deve curare anche senza aspettare il tampone.
Come mai invece il CTS ha seguito un’altra via? Le ragioni sono legate al fatto che il meccanismo di validazione scientifica procede attraverso passi universalmente accettati (studi di fase 3 e pubblicazione su riviste scientifiche) ma che recentemente sono stati oggetto di critica in quanto non più al passo con i tempi. La peer review (validazione tra par)i è considerata lo strumento fondamentale per garantire la qualità dell’informazione scientifica.
Eppure, da oltre 25 anni viene messa in discussione non soltanto la capacità di questo strumento di filtrare in modo efficace la produzione scientifica, ma anche l’etica di un percorso che può ritardare la condivisione di risultati importanti, penalizzare la veraa spillo, nnovazione o i ricercatori realmente capaci di pensare fuori dagli schemi. Uno strumento in crisi, dunque, ma di cui non si riesce a fare a meno e di cui gli esperti dei comitati scientifici hanno dovuto/voluto tenere conto.
È possibile immaginare dei correttivi? È possibile pensare che singole scoperte possano avvenire al di fuori di questo sistema? Sono molte le associazioni scientifiche che da tempo si interrogano sui modi per ripensare la revisione critica di valutazione e non dover sempre accogliere (con gravi ritardi) le esperienze di successo in cui singoli (o minoranze) hanno avuto il coraggio (e la competenza) di ‘derogare’ dalle regole facendolo però a proprio rischio e pericolo (anche di carriera) pur di innovare a vantaggio del bene comune.
Gioco forza, i Comitati Tecnico Scientifici nazionali e internazionali hanno finito, con declinazioni differenti, per tenere conto della strada maestra conosciuta e teoricamente inconfutabile che, tuttavia, ha finito con lo schiacciare e non riconoscere altre esperienze mediche, apparentemente eterodosse, che avevano avuto esiti positivi con poca spesa e che potevano determinare vantaggi e maggiore sostenibilità (e magari poco valutati nel processo di peer review).
Sul piano dei grandi numeri della pandemia e dei metodi terapeutici dei Paesi più ricchi, tecnologicamente avanzati e con un accesso al farmaco governato dalle grandi industrie farmaceutiche, questa posizione ufficiale (per quanto più ‘comoda’) si scontra però con la spesa sanitaria e un accesso alla terapia intensiva minore: un problema di costi per i Paesi più ricchi e un problema di accesso per i Paesi più poveri. Un rilievo non piccolo se ci si pone la domanda: sarà possibile vaccinare tutte le persone del pianeta con un mezzo terapeutico costoso come il vaccino? Sarà possibile avere tanti letti di terapia intensiva (con tutto il know out che richiedono) quanti potrebbero essere i potenziali pazienti?
È chiaro che il sistema tampone ‘più ospedalizzazione, più terapia intensiva’ non è sostenibile a livello mondiale (ma neppure da noi) e la medicina deve trovare un sistema per rendere le cure sostenibili in tutto il mondo altrimenti il virus non sarà mai debellato a causa della sua mutabilità (si noti che nei paesi tecnologicamente avanzati già si parla già di tre-quattro cicli di vaccinazione e si rischia di continuare con cicli annuali ad libitum così come accade con l’influenza). Su questa strada il sistema sanitario anti covid rischia di implodere anche a causa di una risposta terapeutica elefantiaca.
È necessario quindi trovare altre vie di guarigione meno costose, meno tecnologicamente avanzate e più umanamente e socialmente compatibili. Ed è per questo che il protocollo “Cavanna” delle cure domiciliari potrebbe essere una grande svolta che giunge dopo le conferme della sua validità (da parte anche dell’Istituto Mario Negri e di altri studi nel mondo) basata su vecchi farmaci e su trattamenti a casa rispetto all’ospedalizzazione forzata. In futuro bisognerà quindi fare più attenzione a cure ‘eterodosse’ sul campo che si rivelano efficaci, (anche se minoritarie sul piano scientifico) e non sbrigativamente avversarle (com’è stato fatto per oltre un anno).
Se il Covid-19 fosse stato combattuto primariamente a casa e non in ospedale avremmo avuto risultati terapeutici migliori?
La legittimità della domanda nasce anche dagli oggettivi esiti di mortalità italiani avendo raggiunto il record mondiale (dopo il Belgio). Quando la pandemia è arrivata, eravamo certo disarmati (ora sappiamo anche senza piano pandemico) e cinesi e OMS ci hanno sviato con indicazioni generiche e spesso contraddittorie se non sbagliate.
In questa luce devono essere considerate le dichiarazioni del dott. Luigi Cavanna, riportate nell’articolo di Barbano prima citato, a proposito di un farmaco antico e poco costoso che ha dato risultati incoraggianti in applicazioni su piccola scala: “l’idrossiclorochina, che oggi si fa fatica anche a nominare, ma che era nelle linee guida della società italiana di malattie infettive tropicali, e alcuni antivirali già impiegati contro l’Aids, associati ad antibiotici (andavano bene, NdR). Timidamente cominciavano a somministrare l’eparina, ma solo per i pazienti allettati. Così abbiamo curato 330 persone a casa, ricoverandone meno di 20, due sole gravi e nessun morto. Poi sull’idrossiclorochina è caduta la scomunica di The Lancet a giugno e Oms e Aifa si sono adeguate”.
Barbano chiede come mai non è stato considerato chi, lavorando sul campo, aveva successo- E Cavanna risponde: “…considero gli interessi dell’industria decisivi per il futuro della ricerca…però so che la messa in commercio di un farmaco passa per uno studio randomizzato di fase tre e non esiste uno studio simile che non sia sponsorizzato dall’industria. E l’industria non ha un grande interesse a investire su una vecchia molecola antimalarica. Non a caso non esistono riscontri attendibili sull’uso precoce dell’idrossiclorochina. Aggiungo ai miei dubbi quelli del professor Antonio Cassone, ex direttore dell’Istituto Superiore di Sanità, uno che sa come vanno le cose: lui fa notare che le riviste più autorevoli non hanno pubblicano un solo report a favore dell’idrossiclorochina, ma lavori di basso livello (poi rivelatisi falsi che The Lancet ha cancellato, Ndr) che la demolivano. Questo per dire che la ricerca è sovrana, l’industria è utile, ma talvolta non sempre l’una e l’altra promuovono l’interesse generale”.
Poi Barbano chiede lumi sul plasma, prima elevato a terapia risolutiva, poi scartato senza un chiaro perché. Sentiamo la risposta di Cavanna: “Gli studi spontanei, opera di medici di buona volontà, non saranno mai così potenti da superare tutti i paletti richiesti per imporre una terapia. E nessuna industria che produca farmaci è interessata a investire sul plasma…attorno al tavolo (del Ministero e del CTS, Ndr) mancava chi cura i malati. La cosiddetta real world evidence, che in un’emergenza inedita e straordinaria vale più di uno studio randomizzato”.
Siamo di fronte ad un tema di una rilevanza che va ben oltre il lavoro dei sanitari e le strategie più appropriate per curare e ridurre la mortalità (in Italia “qualcosa è andato storto”), e che riguarda tutti i lavori di oggi che sono sempre più ‘proceduralizzati’ dai manuali della qualità (domani dall’Intelligenza Artificiale). Esso mostra come nei casi in cui è necessario innovare o perché si è di fronte ad un problema ignoto (come nel caso del virus Covid-19) o perché semplicemente si vuole innovare/cambiare per migliorare, applicare le procedure previste dai manuali di qualità se, da un lato, garantisce contro eventuali reclami dei pazienti/clienti, d’altro lato rischia di “fare bene cose inutili” (nel caso delle terapie intensive anche dannosi).
Un problema che incontriamo tutti i giorni come lavoratori e/o clienti, che coinvolge tutti i processi di lavoro di società (le nostre) che dobbiamo ricostruire nel post-Covid, evitando proprio di creare con procedure sempre più formali (domani gestite da un algoritmo) più problemi di quelli che risolvono e facendo si che la “fatica del lavoro” si trasformi davvero in servizio al cliente, diventi umana e favorisca la ‘buona vita’ e non diventi una procedura anonima di cosiddetta qualità (di fatto contro il cliente e l’autonomia del lavoratore).
Le ricerche ‘sul campo’ (e le buone pratiche) dovrebbero essere considerate con maggiore attenzione proprio alla luce della loro sostenibilità e forse, se fossero state sin dall’inizio combinate con l’altro approccio (ospedalizzazione-vaccinazione), avrebbero costituito il vero baluardo alla mortalità da covid.
In ogni caso, esse potrebbero costituire, specie nelle aree del pianeta più povere e meno tecnologicamente avanzate, perché non esistono ospedali nè avanzate tecnologie, perché costano poco, la risposta più efficace (come già hanno dimostrato Mauritius, Madagascar, ecc.). E ciò potrebbe permettere anche ai vari sistemi sanitari di far fronte al dilagare di altre patologie oggi quasi dimenticate a causa dell’esplosione pandemica. Ma anche da noi…meglio tardi che mai.
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Andrea Gandini
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