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In inglese, ‘to document’ significa documentare, attestare. L’origine etimologica è il latino ‘documentum’, a sua volta derivato di ‘docere’: informare, far sapere.
Che è uno dei compiti del giornalista. Che è il mestiere di José Antonio Vargas, penna di alcune tra le più prestigiose testate americane – Washington Post e Huffington Post, solo per citarne alcune – e premio Pulitzer 2008, maggior riconoscimento per un giornalista statunitense.
José è letteralmente un informatore, uno che scrive, ma per la legge americana non è documentato, non ha traccia scritta di sé che valga per la legge, quindi ‘undocumented’: un immigrato senza documenti. Questo perché dalle Filippine, paese di origine della sua famiglia, è arrivato all’età di dodici anni negli Stati Uniti per raggiungere i nonni materni senza carta verde né Visa, né un qualsiasi altro regolare documento di cittadinanza. E scoprendo la verità quasi per caso.
Fino a quando nel 2011 non decide di dichiarare pubblicamente il suo stato di senza documenti con un lungo articolo sul New York Times, percorrendo in lungo e in largo il paese per raccontare la sua storia alle persone attraverso la campagna “Define Americans” (Definisci gli americani).

Chiedersi cosa significhi essere americani, da dove abbia origine la parola, è la chiave del discorso che Vargas sottolinea più volte. Perché la prima riflessione che viene spontanea è che gli Stati Uniti sono stati creati da persone che arrivavano dal mondo intero, ma da sempre il governo americano allontana chiunque non sia in possesso dei documenti necessari – solo durante l’amministrazione di Obama sono state due milioni le persone deportate. Mettendo in luce una legislazione assurda e macchinosa che termina sempre a un punto morto, perché per un adulto non è possibile regolarizzarsi se non attraverso il matrimonio e che altrimenti prevede un iter di messa in regola che può durare più di dieci anni; che separa famiglie – frequente il caso di chi, all’interno della stessa famiglia, è cittadino regolare e chi no – e che non offre possibilità concrete a chi vorrebbe, ma non può, costruirsi qui una vita, pur con tutte i limiti del caso – pagare regolarmente le tasse, frequentare scuole, lavorare.

Il caso di Vargas esplode a livello nazionale e porta alla luce l’assurdità e le contraddizioni del sistema di leggi che governano e permettono la concessione della cittadinanza, assumendo proporzioni nazionali. Grazie a lui, il governo viene finalmente indotto a considerare seriamente i Dreamers, sostenitori della proposta di legge DreamAct fondata sulla possibilità, per i ragazzi non ancora diplomati e residenti negli Stati Uniti. Mettendosi dalla parte di quelle 11mila persone che oggi lo sono, e finendo sulla prima pagina del Time che gli dedica un servizio con l’intento di smuovere il governo e le coscienze di chi già possiede quel pezzo di carta utile a essere considerato cittadino, raccogliendo pareri e voci disparate e ricavandone ritratti contraddittori. Questa è la parte del viaggio riuscita: è la sua vittoria a favore di tutti i giovani fino ai 30 anni, ma ancora in itinere per quanto riguarda una legge più generale.

Il documentario, scritto da lui stesso, mescola la incessante ricerca di riconoscimento legislativo, e quindi agli occhi del mondo, alla ricerca dei profondi legami familiari e affettivi costruiti e scissi nel corso della sua vita. Non senza momenti di leggerezza, ripercorre la sua vita da bambino, adolescente e poi adulto di successo, mostrandone le battaglie collettive e le sofferenze personali – il delicato e labile rapporto con la madre, che non vede da quando fu lei a dargli di fatto una speranza di una vita diversa mettendolo nelle mani di chi lo fece entrare negli Stati Uniti – ma soprattutto con se stesso e il proprio essere nel mondo, rivendicando quella firma ormai celeberrima che compare in calce a ogni suo articolo, e che chiunque può riconoscere come talento che adesso vuole spianare la strada per altri mille che reclamano, a gran voc,e di essere riconosciuti e prendersi il Paese dei Sogni.

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Giorgia Pizzirani



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