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Save the Children è tornata a denunciare l’aumento della precarietà nelle condizioni di vita dei bambini italiani. Lo ha fatto in occasione del lancio della campagna per il contrasto alla povertà educativa “Illuminiamo il futuro”.
Sebbene la fase più critica sia stata tra il 2011 e il 2014, quindi in piena crisi economica, quando il tasso di povertà assoluta tra i bambini passa dal 5% al 10% nonostante il decreto “salva Italia” di Mario Monti, il trend si è prolungato fino ai giorni nostri. Si è passati dal 3,7% del 2008 al 12,5% del 2018, ovvero da 375 mila a un milione e 260 mila. In termini di “povertà relativa”, invece, si passa dal milione e 268 mila del 2008 ai due milioni e 192 mila del 2018.
Quello che si evince dunque è che la situazione non sta affatto migliorando, sia nei dati che nella capacità di reazione dello Stato, dei politici e dei cittadini.
E lo spread sociale di cui stiamo parlando, e che vede i ricchi sempre più ricchi in concomitanza all’aumento dei poveri, viene misurato anche in termini di disuguaglianza regionale.
Si passa dall’Emilia Romagna e dalla Liguria, dove mediamente ‘solo’ un bambino su 11 si trova in condizioni di povertà relativa, alla Calabria, che detiene il primato negativo. In questa Regione infatti, addirittura un minore su 2 è in povertà relativa (47,1%). Poi ci sono la Campania, la Sicilia e la Sardegna che si mantengono sopra la media nazionale, con un minore su tre in difficoltà economiche e sociali.
Nelle Marche un bambino su cinque è in situazione di povertà relativa, in Friuli invece più di un minore su 6 (17,4%) vive in questa condizione proprio mentre il governatore Fedriga è costretto a “difendere i confini orientali dell’Italia” dai migranti, come ha avuto modo di dire dal palco di San Giovanni durante il raduno del centrodestra a Roma.
Save the Children, Istat, e associazioni a vario titolo coinvolte, ci mostrano dati che fotografano lo stato dell’arte di questo Paese ma che ottengono raramente la nostra attenzione.
Poca attenzione anche nei discorsi dei politici di opposizione impegnati a contrastare l’inesistente tassa sulle merendine o nelle pagine del documento programmatico di bilancio (Dpb) redatto dai politici di governo, impegnati a disinnescare le clausole Iva.
Mentre i dati sulla povertà peggiorano e il Paese inevitabilmente si ritrova più disuguale e in difficoltà, tutti gioiamo del fatto di aver messo da parte 23 miliardi per scongiurare l’aumento dell’Iva. Da qualche parte però che non vedremo mai, se non nelle parole dei ministri dell’Economia. 23 miliardi con cui si poteva invece alleviare la sofferenza di quei minori.
Disinnescare le clausole Iva è diventato parte del nostro patrimonio genetico e risale ai tempi del governo Berlusconi, quando l’esecutivo, alle prese con una vera e propria crisi dei conti pubblici e al fine di poter approvare le misure previste dalla manovra, strinse un patto con l’Unione Europea pressoché impossibile da rispettare. Cioè si impegnò a reperire entro il 30 settembre 2012 ben 20 miliardi di euro, pena l’obbligo di tagli alla spesa pubblica, aumento delle aliquote Iva e delle accise e un taglio lineare alle agevolazioni fiscali.
In altre parole ogni anno dal 2012 si sottraggono al benessere collettivo 20 miliardi di euro, che moltiplicati per 8 anni fanno 160 miliardi, in ossequio ad un autoimposto vincolo di bilancio. Tutto in nome del debito pubblico, anche se non esiste al mondo una ragione perché uno stato non debba averlo. Anche se il debito pubblico è solo la spesa dello stato, cioè la spesa per dare pensioni, ospedali, istruzione, ricerca, ponti e strade ai cittadini. Anche se senza debito pubblico non ci sarebbero nemmeno i soldi per pagare le tasse.
Certo, fatti i calcoli ad economia ferma come sanno fare bene a Bruxelles, si dirà che il debito pubblico sarebbe aumentato di 160 miliardi. Ma se anche la Bce continua a chiedere che gli stati incomincino a spendere visto che la politica monetaria da sola non è sufficiente per rimettere correttamente in piedi il ciclo economico, allora sarebbe il caso di chiedersi di quanto sarebbe aumentato il Pil in caso si fossero utilizzati tutti questi soldi in investimenti e in supporto dell’economia reale, piuttosto che a tutela dell’economia dei ragionieri.
In Europa si comincia a parlare di spesa, di politica fiscale espansiva, ma noi sappiamo di non poterlo fare perché abbiamo il debito pubblico troppo alto ma il debito pubblico cresce anche quando non cresce il Pil, e il Pil non cresce se si lascia scorrere indisturbata la recessione e se lo Stato non interviene con politiche anticicliche, cioè spende. Ma se lo fa, nell’immediato si fa deficit e il debito aumenta.
Destra, sinistra, centro e opinione pubblica concordi nell’accettazione del dogma dell’equilibrio di bilancio e nella riduzione dello Stato ad azienda privata, il che, inesorabilmente, toglie qualsiasi difesa a chi nella società non è abbastanza forte da potersi difendere da sé, come i minori descritti da Save the Children.

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info


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