Nella mia lontanissima infanzia il treno nell’Italia che usciva dalla catastrofe della guerra e si avviava alla ricostruzione degli anni Sessanta del secolo scorso rappresentava il mezzo più usato e ambito. Per anni il nonno portava me e mio fratello alla stazione ad ammirare quelli che mi apparivano mostri d’acciaio avvolti in nuvole terrificanti di fumo mentre ruggiti e brontolii uscivano dalle loro pance di ferro. Poi nei beati anni dell’infanzia la zia Lea (da noi chiamata ‘Eia’ con rapido movimento della lingua) ci portava al mare a ‘Riczone’ come veniva chiamata la favolosa spiaggia frequentata dal duce che aveva tra le altre qualità quella di possedere alcune terme. Per me luogo terrorizzante in quanto a causa di un ascesso alla gola (o qualcosa di simile) venni fatto rioperare proprio in quel luogo da un equipe di medici militari. Andavamo alla pensione Borghesi ora un ottimo tre stelle dove, per risparmiare, noi bambini venivamo fatti dormire in camera da pranzo su delle brandine tolte frettolosamente alle 7 di mattina per permettere di servire la prima colazione. Erano i nostri alberghi di lusso. Ma il viaggio! Quello era il vero godimento. Prestissimo si partiva in tramway che ci portava alla stazione dove ci attendeva un accelerato che faceva la costa fino a Cattolica, d’estate. Sempre in seconda classe come era d’uopo per la media borghesia mentre noi bambini bramosi osservavamo il caos della terza classe spesso rallegrata oltre dalle grida dei piccoli o dai versi di qualche gallinaceo o a volte dai belati timidi di agnellini battufolosi.
I nomi dei treni, scoprii più tardi quando il treno divenne la mia stanza – quella che mi portava da Firenze a Ferrara e viceversa tutte le settimane – erano affascinanti: Rapido, Direttissimo, Diretto, Accelerato, Littorina. Talvolta ‘treno locale’ o al limite ‘regionale’. E la scansione strascicata dell’annuncio che poi divenne un mito con cui si avvertiva dell’arrivo dei treni e che cominciava con una voce stanca ‘Ferara’, stazione di ‘Ferara’. Di treni e sui treni esiste una letteratura che io stesso cerco di alimentare con un futuro romanzo che dovrebbe appunto chiamarsi “Il romanzo del treno”, ovviamente mutuando il titolo dal bassaniano “Il romanzo di Ferrara”. Giorgio Bassani molto s’intendeva di treni e basta percorrere le sue prime prove per scoprirne non solo l’attrazione come soggetto letterario ma la necessità. Nella sua giovinezza sul treno che lo portava da Ferrara a Bologna e viceversa incontrava gli amici del cuore che attorno a Roberto Longhi avrebbero creato quella consapevolezza di una Italia che esulava dai prodromi fascisti o anche attraverso quelli costruiva una nuova idea di letteratura, poesia e arte. Così in treno Micòl nel Giardino dei Finzi-Contini si reca a Venezia dai nonni e a seguire le lezioni all’Università. In treno si compie il destino di Athos Fadigati nel primo romanzo, Gli occhiali d’oro (G. Bassani, Opere, Mondadori, pp.232-33).
Ormai il rapporto treno-letteratura è uno dei filoni più frequentati nella letteratura mondiale. Basti pensare al libro di Christian Wolmar, o da noi quello di Gabriele Crepaldi, ma il fascino esercitato da un possibile romanzo del treno e in treno è insuperabile. In altre occasioni ho parlato e scritto delle ‘novità’ che venivano ad interrompere la monotonia del viaggio risaputo, con le sue tragedie come lo scoppio del treno sotto la galleria Bologna -Firenze negli anni di piombo oppure regolamenti e regole che dovevano giustificare i ritardi giornalieri che avvenivano sulle linee importanti come la direttissima Milano-Roma. In quel tempo si accusavano i viaggiatori di non essere abbastanza solleciti nel chiudere le porte, un compito affidato a loro con risultati deludentissimi. Oppure i venditori di cibo abusivi che intasavano i marciapiedi delle stazioni regolarmente dispersi dagli addetti. Si formò in quegli anni la fama di alcuni ristoranti che avevano cominciato con il pranzo al sacco venduto in stazione come a Cesena.
Oggi i treni non più mostri ma idee portano nomi affascinanti come le mète che debbono raggiungere: Freccia rossa, argento, bianca; intercity, interregionale. Non si nomina più l’accelerato che era il treno dei lavoratori. Su quei carissimi e lussuosi oggetti spaziali – e si pensi alle ferrovie monorotaia del Giappone – stretti in uno spazio minuscolo specie nelle carrozze Smart non si odono che sussurri e non più grida, tutti intenti come siamo a cercare affannosamente l’alimentatore di pc e di telefonini. Altere signorine dal foulard svolazzante ti chiedono freddamente copia del biglietto che tu esibisci dal telefonino ma anche nel regno della tecnologia, nell’Eden del viaggio si è inserito un serpente traditore dal nome prettamente italiano. E’ malamente ospitato dalle ferrovie italiane, i suoi stand non sono quelli del legittimo possessore della rete ferroviaria. Deve drighignare i denti e come il serpente tende trappole. In quattro giorni di viaggio ho avuto un ritardo di 55 minuti (attenzione al sessantesimo scattava la penale per loro), sono stato incomprensibilmente trasferito da una carrozza all’altra senza alcuna spiegazione (colpa del ‘materiale’ mormorava la bella mora dallo sguardo imbarazzato); ho dovuto aspettare 15 minuti a Roma fuori dalla porta sbarrata perché erano in corso le pulizie dei vagoni che nascevano nella stessa città. E ancor più ingenuamente avevo fatto il biglietto pieno per la tipologia Smart che portava lo stesso costo della prima scontata perché non essendo sicuro di partire non volevo perdere tutto il costo del biglietto, cosa che sarebbe accaduta se avessi dovuto rinunciare al viaggio.
Insomma l’alta velocità specchio a misura della nostra politica.
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Gianni Venturi
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