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Alla fine della Seconda guerra mondiale – e la testimonianza è personale – si ripresero i miti dell’infanzia codificati in tempi bui. Tra questi la Befana “dalle scarpe tutte rotte” che lasciava vicino alla stufa o al caminetto, per chi lo possedeva, la sua calza piena di doni e… anche di carbone, che esprimeva la punizione per ciò che i bambini avevano commesso di scorretto lungo l’anno.

Era una sorpresa temutissima che penalizzava e marchiava di nero ciò che secondo il giudizio genitoriale non andava fatto. Praticamente ogni anno ho avuto la mia calza di carbone, quella materia che faceva paura perché nera, strappata dalla profondità misteriosa della terra, temibile ma pur necessaria.

Una delle immagini che più ritorna nel mio immaginario infantile è nell’inverno freddo e nebbioso il rito del riscaldamento del letto, ottenuto attraverso un ordigno che, a seconda di come era fatto, prendeva il nome di prete suora. Il primo allungato, il secondo tondo.

Il rito, seguito con molta attenzione e partecipazione, da cui noi bambini eravamo tenuti lontani, comprendeva la necessità di riempire di braci di carbone (o della più economica carbonella) un recipiente di ferro che veniva sospeso o meglio appeso dentro il prete o la suora.

Prima d’infilarci sotto le coperte o meglio i coltroni pieni di scarti di cotone, resi bollenti dal carbone ardente, meticolosamente le braci venivano riversate dentro il camino o la cucina economica per evitare di procurare qualche incendio non sempre scongiurato.

Il progresso avvenne quando si elettrizzarono anche gli scaldini del letto. La negrezza del carbone frattanto diventò bivalente come metafora e realtà. Appena un accenno rabbrividente quando si pensa quanti dei camini della soluzione finale furono alimentati col carbone! Altro che i delinquenti civili e morali che sfilano protestando per il green pass vestiti da prigionieri dei campi. Vergogna!!!

Nel tempo del boom economico i nuovi ricchi si esponevano al sole nelle spiagge per diventare “neri come il carbone”, mentre la tragedia delle miniere procurava Marcinelle [Qui] o relegava i carbonai tra i lavoratori più umili della classe lavorativa.

Ancora negli anni Sessanta era in atto la discriminazione tra i lavoratori italiani che lavoravano nelle miniere del carbone tanto da impedire l’accesso ai bagni nelle stazioni della Baviera, come da me sperimentato de visu.

Ci fu poi la mitizzazione dei carbonai nelle colonne dei musical da “spazza camin” o di altre canore esibizioni. Sempre in quegli anni vidi le cantine dove si accumulava il fossile per alimentare i termosifoni, recente conquista del miracolo italiano.

E col trascorrere dei decenni ecco la condanna del carbone come principale protagonista della trasformazione climatica, mentre “i negri”, secondo la più schifosa definizione di tanti novelli idioti, venivano di nuovo paragonati al carbone.

Spero che il nuovo pericolo rappresentato da questo fossile sia compreso e al più presto si pensi a una soluzione alternativa. La moda ora condanna anche l’abbrustolimento al mare, quella che ci rendeva neri come il carbone. Est modus in rebus. Oltre al fondamentale vaccino si usi il carbone per motivi più consoni al nostro tempo minacciato e minaccioso.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it