Ritorno in città dall’esilio ‘laidesco’ (per chi mi legge solo ora è il mio modo di chiamare il Lido/Laido degli Estensi) impegnatissimo a concludere i lavori in corso compresa la conferenza su Dante, che sarà il giusto omaggio a chi tanto mi ha dato nella mia vita culturale e accademica.
Mi telefona un’amica, domandandomi se sapessi del concerto che apriva al teatro comunale la stagione sinfonica dove avrebbe suonato la ‘mia’ Martha. Mi precipito ad acquistare il biglietto pregustando una serata degna degli angeli.
E così è stato. Avrebbe suonato un pezzo difficilissimo di Dmitrij Šostakovič [Qui], Concerto per pianoforte con accompagnamento di orchestra d’archi e tromba assieme al trombettista israeliano-russo Sergei Nakariakov [Qui] e con la Manchester Camerata [Qui] diretta da Gábor Takács-Nagy [Qui]. L’attesa era tanta. Martha Argerich [Qui] zoppica un poco, il suo bellissimo viso è contornato e semi-nascosto dalla massa di capelli grigi.
La potenza delle dita e delle mani è tale che il pianoforte sembra sussultare sotto il loro tocco, poi uno sguardo al biondo ragazzo che comincia a suonare la tromba, mentre i capelli con la scriminatura a metà si chiudono sul suo volto arrossato per lo sforzo e alla fine due occhi infantili chiedono il giudizio alla divina Martha, che glielo concede con dolcezza e protezione. Un silenzio stupefatto subito dopo l’ultima nota.
Lei si alza con un sorriso infantile piega la grigia chioma e allora il teatro è scosso da un urlo irrefrenabile mentre i ‘bravi!’ si sprecano e la stessa Camerata entusiasticamente batte la sua approvazione sugli archetti.
Si allontana la divina col suo passo esitante, accompagnata dal suo ragazzo-tromba poi ritorna e per ben cinque volte accontenta il pubblico in delirio, ripetendo il primo tempo del concerto e poi ancora, ancora, fino all’immancabile commiato, che ce la porta lontano nel regno del divino da cui era discesa a miracol mostrare.
La Camerata esegue poi la celeberrima Serenata per archi di Pëtr Il’ič Čajkovskij [Qui]: il direttore entusiasta ricorda che quella esecuzione è dedicata al grandissimo Abbado di cui ora Nagy occupa la stanza che dà sulla piazza del Castello nell’hotel Annunziata.
Gli archi cominciano a suonare e l’occhio spazia sugli esecutori. Il primo contrabasso è una signora dagli infuocati capelli rossi; tra le viole sorride un giovane che sembra Calenda da giovane; nascosta nell’ultima fila suona una signora che sembra la copia della moglie del fittavolo che in Downton Abbey tenne come figlia Marygold, la bimba del peccato della infelice Edith, che se la riprende e perde il fidanzato.
Salta come un ossesso il direttore Nagy e conferma ciò che la Camerata intende per musica e la sua trasformazione in un complesso etico che, spiega il programma, “lavora con ricercatori e professionisti a livello mondiale nel campo della demenza, per offrire una musicoterapia efficace e significativa”.
Saltella Nagy, s’infiamma nel dirigere infiamma allo stesso tempo il pubblico e l’orchestra. Poi lentamente le luci s’accendono e un pubblico commosso accompagna gli orchestrali, che si salutano sul palco.
Pian piano mi avvio verso casa, traversando un centro semi-deserto (e sono solo le 11 di sera). Penso a questa ‘Ferara’ capace di offrire queste intrusioni nel divino e poi ripiegarsi su imbarazzanti e semi-inutili polemiche sui “settantacinque anni di comunismo”, come da tempo viene definito il periodo dell’amministrazione di sinistra.
Mi rattrista a volte il ruolo che le associazioni culturali benemerite sono costrette a sostenere; quelle associazioni che in tempi lontanissimi ho frequentato e a volte presieduto.
Infine, arrivo a casa ‘pedon pedoni’. Gli amici sfrecciano in bicicletta e m’invitano a fermarmi a mangiare una pizza della buonanotte. Ringrazio e faticosamente proseguo. Il cielo s’illumina di lampi minacciosi, poi si aprono le cateratte di un nubifragio improvviso.
Forse il cielo piange la fine del concerto della divina Martha.
Cover: Martha Argerich (Buenos Aires, 5 giugno 1941) – Foto Wikimedia Commons
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Gianni Venturi
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