In questi lunghi giorni passati all’ospedale di Cona per curare una forma non consueta di sarcoma, ho potuto osservare, apprezzare e condividere il delicato e spesso non appagante lavoro degli addetti: dal primario, ai medici, agli infermieri ai tecnici, fino a coloro che tengono puliti gli ambienti.
Vengo accolto da una gentile signora, che cambia aspetto a seconda dell’età che s’intuisce sotto la mascherina e ne ho ammirata una che esibiva con fierezza una capigliatura integralmente tosata ai lati e fieramente svettante sul cocuzzolo.
Immediatamente, proprio per combattere l’ansia che mi divora, cerco di trasformare in racconto ciò che sperimento. La prima volta sono ammesso alla presenza del ‘capo’, che cortesemente mi fa accomodare e rivela subito la conoscenza del mio lavoro e delle mie inclinazioni culturali.
Mi chiede senza ambagi se l’aiuto a montare una mostra di pittura ferrarese da esibire nei corridoi del reparto, che accompagni i pazienti-fruitori nel loro percorso al luogo dell’irradiazione. Accetto entusiasta, promettendo di interessare gli amici della LILT e delle altre associazioni medico-culturali, però (non smentendo la mia natura contrattuale) chiedo anch’io un grande favore, ovvero quello di essere spostato alla mattina invece che nel pomeriggio.
Gli racconto che il sonnellino post-prandium è così connaturato alla mia natura che, ai tempi dell’Università non ho mai frequentato le lezioni di latino che si tenevano alle 15, osando sfidare il grande studioso, divenuto poi collega e amico, cercando di arrampicarmi sugli specchi fino a buscare un “ritirato”, che avrebbe potuto macchiare il mio impeccabile libretto e la possibilità di mantenermi a Firenze con le borse di studio. Così per un anno dormii su Tito Livio, ma alla fine riscattai la dormitina con un altro 30 e lode.
Vengo fatto accomodare nella sala d’attesa; mi si assegna un numero che, una volta scandito al microfono, mi avrebbe condotto alla sala radiazioni. Nella sala d’attesa troneggia uno scaffale pieno di libri. Un cartello indica che si possono leggere, portarli a casa e sostituirli con altri e allora mi si apre il cuore. C’è un Arbasino che non avevo. L’ho cambiato con altri sei testi.
Infine risuona il mio numero. Trepidante m’avvio alla stanza accompagnato da una giovane allegra che mi chiama Giannantonio. La interrompo spiegandole che rifiuto quel nome e che avrei apprezzato di venir chiamato Gianni. Allegramente annuisce. Ora, dopo molte sedute, le ragazze e i ragazzi nel reparto fanno echeggiare un “ciao Gianni!” che mi inorgoglisce.
Infine, arrivo e mi si presenta quella che chiamo ‘la maschera di ferro’. Tumultuosi si affacciano i ricordi dei libri letti sull’argomento, specie quello di Dumas, che da ragazzetto mi intrigava al punto di tentare di leggerlo in francese nei miei primi anni giovanili.
Vengo sdraiato su un lettino sotto un tetto luminoso che fotografa un bellissimo ramo fronzuto con le foglie autunnali. Attorno a me si stringono diverse persone, tra cui un gigante dalla voce profonda dotato di meravigliosi zoccoletti di lavoro gialli.
Si appresta la maschera che già mi era stata confezionata: imponente, bianca, un poco mostruosa. Ma già alla prima seduta comincio ad averne fiducia, mentre interpellanze gentili chiedono cerotti e nastri adesivi; la musica in sottofondo trasmette le più recenti canzoni canticchiate da chi attorno procede alla sua collocazione. Dal basso profondo del gigante in zoccoli, alle voci femminili che rivelano provenienze regionali diverse.
Chiudo gli occhi e un gelido sacchetto mi viene posto sul cranio mentre il medico, come una partita di calcio, dà il via. Da lontano un misterioso rumore annuncia l’irradiazione, si fa più vicino, scarica i suoi benefici raggi e s’allontana, mentre un affrettato trapestio m’annuncia ciò che vien detto con affetto “Gianni, ora lo liberiamo”.
Così con delicatezza mi mettono in piedi e di nuovo insciarpato raggiungo l’uscita, pronto per il giorno dopo. È un’esperienza che potrebbe essere traumatica se non fosse per la preparazione, la cura di tutti che sfiora l’amore e mi rende orgoglioso di far parte di quella istituzione che è il servizio nazionale pubblico e che così vergognosamente viene trattato dalla politica.
Non dimenticherò questa esperienza e ancora dico grazie a chi svolge il proprio lavoro con consapevolezza e orgoglio.
Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca [Qui]
Sostieni periscopio!
Gianni Venturi
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it