DIARIO IN PUBBLICO
Il mistero dell’identità tra politica, arte e letteratura
Un articolo di Paolo Di Stefano appare sul Corriere della sera del 2 giugno ’20. Con tono apparentemente ironico l’autore attribuisce al sommo Arbasino la dicitura del partito di Giorgia Meloni: Fratelli d’Italia. Di Arbasino, carissimo amico, ho pubblicato un ricordo apparso su questo giornale il 25 marzo dell’anno in corso e la nostra amicizia ha percorso i decenni, accompagnata da quella del massimo studioso dello scrittore, Raffaele Manica. Sicuramente il commento del giornalista più che una fake news certamente s’appoggia su un paradosso mal riuscito. In fondo anche allo stesso scrittore si sarebbe potuto imputare l’accusa di plagio se, come sappiamo, il romanzo prende il nome dal verso dell’Inno di Mameli. E, inoltre, penso che la signora Meloni tutto avrebbe sperimentato fuor che rivolgersi a chi, sia nella scelta politica che in quella letteraria, era all’opposto della sua visione ideologica. Per forza, come un altro arbasiniano suggerisce, Massimiliano Parente, lo scrittore non avrebbe risposto! Da ignorare.
Perciò non ammetto, anche se in via ironica, la commistioni di visioni: quella dell’arte e quella della politica. Al massimo anche la dizione ‘Casa Pound‘ è profondamente sbagliata, proprio perché Pound non fu solo un fervente seguace del nazismo/fascismo, ma anche un grande scrittore. Allora su questa scia ecco ingolfarsi le scelte umane che diventano scelte letterarie, ma ne restano profondamente divise. Proust, per fare un esempio famoso, vendette la casa dei suoi genitori per finanziare una casa d’appuntamenti omosessuale. Ma quello cosa c’entra con il Baron de Charlus? E le vernici navali di Svevo che cosa hanno a che fare con il suo romanzo? La dialettica tra vita e arte.
Ormai un altro messaggio che ci arriva è la oscurità dell’artista rappresentato. Penso a Banksy e alla favola mediatica che è stata costruita sopra questo ‘artista’ così idoneo a raccogliere il gusto contemporaneo: mistero, mancanza d’identità, operazioni da strada. Certo se fa così bene alle casse esaurite della cultura ferrarese ben venga anche lui. Vorrà dire che la sua mostra sarà maggiormente apprezzata da ristoranti, negozi, alberghi. Se si pensa che la stessa operazione di Schifanoia e della sua apertura insiste, più che sulla effettiva qualità di quegli affreschi, sulla illuminazione che ne rivelerebbe momenti nascosti; allora dobbiamo ammettere che la nuova visione dell’arte sta per subire una svolta epocale.
Ieri sera è stato proiettato in tv un film orrendo Opera senza autore, un melo, che avrebbe dovuto spiegare le scelte contemporanee dell’arte nel luogo principe, in cui l’arte si nega per imporla: Düsseldorf. E’ dunque giunto il momento in cui la negazione del fare artistico fa si che il nome riassuma in sé tutto: l’opera e la sua manifestazione. Mi chiami Banksy o Ferrante, non importa ciò che vedo o sento. Importa l’universo che ho saputo esprimere e che dovrebbe essere il reale.
A questo punto preferisco da probabile radical chic vedere i musei molto più che le mostre. Elaborare una mia convinta idea di ciò che m’interessa e m’interesserà per sempre. Una ineliminabile vena didattica? Forse sì.
Mi arriva l’invito a recuperare il mio biglietto per la mostra romana di Raffaello. Non ci andrò. Che farmene di rivedere frettolosamente opere che già conosco e che avrebbero dovuto essere un ripensamento sui testi? Spinti come ‘capre’ col tempo contingentato? Ma va là!
Mi arrivano nel frattempo inviti clamorosi. Partecipare in prima persona alle manifestazioni pavesiane per il settantennale della morte. A Parigi, a Torino. Sempre che cambi la situazione sanitaria. Speriamo.
Mi rivolgo indietro e penso agli anni felici quando Parigi era il TUTTO. Ma per ora mi consola leggere un libro magnifico dell’amico Cesare de Seta, L’isola e la Senna, Jaca Book, 2019. Una consolazione per chi ora solo ricorda la città dei sogni. Così mi rivolgo al mio omonimo criceto, un po’ addormentato in questo fine settimana di riapertura. Svogliatamente mi dice che ormai siamo nel pieno e che la sua vita da ora in poi sarà noiosamente divisa tra libri e eventi. Lo consolo sussurandogli all’orecchio: “Fai il bravo che ti porto con me a Parigi!”.
E il mio omonimo sospira di nostalgia.

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Gianni Venturi
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)