Nei pochi oggetti di qualità che ornavano la nostra casa un tempo spiccavano alcuni vasi antichi e soprattutto dei piccoli bassorilievi in terracotta. Bambino curioso come pochi mi compiacevo di maneggiarli o di giocarci. Scattava allora l’ammonizione di nonna o di mamma: “Nanin, stai attento che son fragili!”, con immediato ritiro dell’oggetto.
Ora mi ritrovo ‘fragile’ come quegli oggetti e la reazione è rabbiosa perché, purtroppo, da filologo e/o italianista non sopporto più l’abuso stomachevole di alcune parole-simbolo che invadono ogni piega pubblica e privata dell’esserci. E mi viene da imprecare sia contro la seria ammonizione degli scienziati che masticano la parola ‘fragile’ come fosse un biscottino e le infinite interpretazioni che i poco informati speakers o pseudo giornalisti o attori o comparse in tv, sui social, e via enumerando danno di questa parolaccia. E ripensando al senso della parola di fronte, allo svenevole slogan filmato da Tornatore, sorge altissimo l’inno di guerra che incita a dire “Fragil, to nona! Che per i non ferraresi significa Fragile! Un c….o”.
Siamo di fronte al peggio, anche rispetto all’ ‘assolutamente sì/no‘, che ormai viene usato anche nei privatissimi bagni di casa nostra. Travolti dalle ‘problematiche/tematiche’ e dagli imprestiti da lingue straniere (ah, i lockdown!) mi aggiro spaesato nella selva dei segni oscuri e trovo pace nel leggere non solo prosa ma anche poesia.
Forse avrò qualche risposta alla mia domanda, ma non l’ho ancora incontrata oltre la “canna pensante” di Pascal: “L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante”. O questo splendido pensiero di Michelangelo:”Desti a me quest’anima divina e poi la imprigionasti in un corpo debole e fragile, com’è triste viverci dentro”.
Quindi, Illustrissimi, datevi una mossa e smettetela di usare in modo coatto e cretino le parole! Quelle sì sono fragili; più degli oggetti della mia infanzia.
Stiamo per uscire anche dal tormentone provocato dall’assunzione di Ovadia e dalle dimissioni del presidente Resca e del CdA del Teatro Comunale di Ferrara. Per fortuna! A mio piccolo avviso l’unico che ne esce con onore è un membro del dimissionario Cda: Massimo Acanfora Torrefranca. Ne dirò, forse, le ragioni in altro momento. Ora a un non-fragile vecchio, Pier Luigi Pizzi, 91 anni, è stata affidata la Presidenza del Teatro comunale.
Intanto godo come un riccio ad apprendere la nomina di Procida a capitale della cultura. Chi ha letto qualche volta i miei trascorsi letterari forse ricorderà la descrizione dell’isola incantata. E prepotente mi ritorna in mente la raccomandazione che l’Amatissima mi fece dal letto dell’ospedale mentre la salutavo partendo per gli USA: “Gianni, se andrai ancora sulla nostra isola porta un rametto di gelsomino con te e mettilo nella mia casa”. Procida è per me tra i pochissimi luoghi che hanno una valenza, legata soprattutto alla universalità della poesia. E chi vi ha abitato non può che rendersene conto. Così salendo verso la fortezza dei d’Avalos potevi incontrare Beppe Barra, o sua madre e se eri particolarmente fortunato, Elsa con i suoi amici.
Di questa consapevolezza è ora testimone diretto un ricco volume, il n.18, 2020 della rivista Contemporanea, pubblicato sia online che in cartaceo da Fabrizio Serra editore. Il mio paziente e straordinario tecnico (san) Lorenzo Caruso sta cercando di recuperare tutte le testimonianze che affidai al computer del mio soggiorno procidano. Spero che riaffiorino. Semmai sarà la memoria che comincerà il lavoro di riappropriazione del passato e che, se le forze mi sosterranno, sarà l’ultimo atto d’amore per Elsa.
E’ notte. Ho appena visto il film Anne Frank. Vite parallele. Di grande qualità e necessità. Basterebbe solo vedere come Helen Mirren legga le pagine del Diario di Anne, i movimenti della bocca, l’espressione degli occhi per capire che la memoria va preservata e affidata all’arte affinché quest’ultima possa codificarne l’universalità e la necessità.
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Gianni Venturi
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