DIARIO IN PUBBLICO
La noia dei campus e le nostre scassate ma vive università
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Intrappolato tra centenari e ricorrenze, Canova, Ariosto, Bassani; incattivito dai mille umori che colano da versioni diverse di uno stesso problema; incavolato da chi con sorriso ebetino imbandiera proditoriamente il pennone destinato al Tricolore di notte, baciando una bandiera di parte. M’abbatto dopo una splendida cena di lasagne con tartufi (offerta) in poltrona. Puntuale come il destino, o il rimorso, comincia in tv la più grande ciofeca della storia del cinema: ‘Love Story’.
E i ricordi cominciano a mulinare. Mia moglie insegnava in provincia; mia madre e io ci trasferimmo al Lido degli Estensi, aspettando l’arrivo della consorte. In giugno era attivissimo il cinema . All’apertura serale – due spettacoli – mamma si piazzò in quarta fila munita di abbondanti fazzoletti e si pappò entrambi gli spettacoli. Noi la raggiungemmo all’ultimo. Il sommesso singhiozzare del pubblico, quasi tutto femminile, accompagnava la celeberrima frase “amare significa mai dire mi dispiace”; mentre anche dal mio ciglio inumidito, forse dalla spaventosa ovvietà del racconto, colava una lacrima sul viso mentalmente cantata da Bobby Solo, di cui invidiavo rabbiosamente la chioma. Passano gli anni e vado a insegnare per un anno in Massachussets, poi vengo invitato ad Harvard da fraterni amici che mi preparano alla Eliot House sontuosa camera da letto. Beh! Quegli studenti erano simili a quelli del film! Molto sport, molta attività sessuale, doverosi studi, pantofole infradito in dicembre – ricordate i giochi sulla neve dei protagonisti del film? – tutto quello che ci aspettavamo dall’immagine dell’America che amavamo e che ci pareva un ‘Paradise’. Non a caso nell’Università dove insegnavo abitavamo in ‘Paradise Road’. Francamente un modo di vivere noioso rispetto alle nostre scassate sedi universitarie, dove tutto era ed è precario ma originale, imprevedibile, nuovo.
E allora appare di una verità sorprendente il commento che Michael Moore mette in bocca ai giovani del suo nuovo film-documentario ‘Fahrenheit 11/9’: “forse noi amavamo un’America che non è mai esistita”. Poi, una delle sere seguenti, acchiappo per caso uno dei film più sconvolgenti e belli della storia del cinema: ‘Sunset Boulevard’ – ‘Viale del tramonto’ – il capolavoro di Billy Wilder. E quell’America che forse non è mai esistita appare reale e vera in quel melodramma che ha la stessa forza di un’opera di Verdi o di Puccini.
Chi, dunque, nel passare e col trascorre degli anni raggiunge una maturità (anche) intellettuale, a quale immagine dell’America deve dare ascolto? Quella di Trump o quella di una straordinaria favolosa cultura che sembra nascere dal nulla? Quella del cittadino ‘comune’ che entra in una sinagoga e uccide gli ebrei ‘vil razza dannata’ o in un dancing fa fuori undici ragazzi che ballano? Oppure quell’America che ci prometteva un nuovo mondo con le rivoluzioni sessantottine o la liberazione sessuale? L’America di Melville o di Hemingway, oppure dei votanti di Trump, il quale minaccia o promette disastri col ditino alzato e la chioma color pannocchia? L’America che produce le soap opera come ‘Love Story’ o l’America che si riconosce nel fondo oscuro della follia di Norma Desmond o del suo banalissimo Guy-Toy?
Allora, in conclusione, quella nazione rimane esempio lacerato delle contraddizioni che ci inquietano e ci turbano.
Frattanto l’intensa attività della Ferrara città d’arte e di cultura procede implacabile. Conto per caso ciò che accade un sabato 17 novembre: Premio Bassani; conferenza alla Fondazione Bassani; cena storica per la Lilt a Palazzo Roverella intitolata ‘La spada nel piatto’; commemorazione degli eccidi al cippo del Doro; la mostra di Courbet e forse un concerto o due.
Potremmo darci ammalati per troppa cultura. Ma per chi ci crede non è mai abbastanza. E speriamo che non ce la tolgano, non ce la limitino perché allora il mondo davvero diverrebbe molto, ma molto più piccolo.
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Gianni Venturi
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