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“La Terra è un paradiso. L’inferno è non accorgersene” (Jorge Luis Borges)

Questa terra misteriosa e magica, a volte così brulla, secca, arsa, assetata, calda, accaldata, sudata, accecata e assolata, incredibilmente e sorprendentemente verde in alcune parti nascoste che appaiono alla vista all’improvviso, è sicuramente la terra del colore marrone. Il colore della sabbia, di quella sabbia alzata dal vento caldo che ti attraversa i vestiti, i capelli e le mani, che ti spettina i pensieri, che ti va volare lontano, che ti fa spazzare via le indecisioni e le preoccupazioni, che ti leviga i dolori rattrappiti arrampicati sulle tue spalle nodose. Il colore del deserto, dei tronchi d’albero abbandonati, di quelli maestosi, vivi e immensi dei baobab, di quelli più striminziti e magri abbandonati sulle soglie delle botteghe altrettanto magre, il colore delle costruzioni, delle case, delle capanne e delle moschee, delle strade polverose. Siamo in Mali, un Paese ora poco avvicinabile ma bellissimo per natura, paesaggi, persone e vita.

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Djenné, porta del deserto che conduce a Tombouctou

Il sole è accecante, già di prima mattina, il vento che ti si appiccica addosso insieme ai pantaloni larghi di lino leggeri ti accarezza e ti accompagna lungo la strada verso la misteriosa Tombouctou, la porta del deserto, la porta spalancata che ti attende a braccia aperte, per condurti cautamente nel nulla, nel silenzio di una distesa di sabbia che non è poi così silenziosa, per aprirti a un cielo dove le stelle luminose sono tantissime, stipate, strette l’un l’altra in un enorme e potente abbraccio cosmico, anime che si urtano perché troppo incollate ma che si sorridono e si scusano per questo. Anche con te.

 

mali-color-marronemali-color-marroneIl marrone delle strada si confonde con le tue scarpe curiose che camminano e vanno quasi da sole, si perde nell’ambra dei tanti sogni che ti hanno portato lì. Il marrone è nelle scatoline che alcuni bambini cercano di venderti, nelle statuine intarsiate di legno, che per la loro sottigliezza ed eleganza, vengono chiamate ombre, nelle tua stessa ombra proiettata su quel cammino misterioso, nelle lunghe collane di perline e nelle ciotole di legno dove mangerai un improbabile couscous cittadino che non avrà mai lo stesso sapore e odore. Nei giocattoli ritagliati da lattine arrugginite di bevande zuccherine e piene di conservanti. Il marrone è negli occhi dei tuareg, in quelli delle donne con la pelle abbrustolita dal sole, nei loro ‘paignes’ colorati cuciti a mano, nelle incredibili capigliature di molte ragazze, quando riesci a intravederle dal velo che ricopre loro il capo.

Il marrone è negli argini e nelle sponde del fiume che ti riporta alla superficie delle giornate piene, nelle pelli e nelle schiene dei cammelli che ti salvano dal vento riparandoti e portandoti al sicuro. Il marrone è soprattutto negli alberi, nei tronchi centenari degli imponenti baobab, nei rami secchi dai quali penzolano stracci bisunti e borse di plastica trascinati dal vento, braccia speranzose rivolte al cielo.

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E poi ci sono gli arnesi arrugginiti degli artigiani per le strade, gli oggetti dei ‘bricoleurs’ che recuperano di tutto, i portoni e le finestre di legno dall’odore intenso, i tetti delle capanne dei villaggi, e soprattutto loro, le case di sabbia, piccole e grandi, alte e basse, lunghe e larghe, case che sembrano fatte con uno stampino, con secchiello e paletta, tanto sono perfette, curate e precise, quelle che vedete quasi ovunque in Mali ma soprattutto nell’incredibile città di Djenné.

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Se Tombouctou, a nord del fiume Niger, era l’Eldorado dei tempi di Leone l’Africano, è la custode di oltre 700.000 manoscritti arabo-islamici dei secoli XIII-XVI (tra cui le opere di Avicenna), e simboleggia, da sempre, l’estrema lontananza del mondo e dal mondo, la bella Djenné è la città di fango. Un fango che si crea e si manipola, quasi lavorassimo con il buon vecchio e caro Pongo, che si plasma con cura, con le mani, con la testa, con i sogni. Djenné è magica davvero, ho avuto la fortuna di percorrerla a piedi quando ancora le condizioni di sicurezza, pur con certe limitazioni, permettevano di visitare il Paese.

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Moschea di Djenné, durante i lavori di manutenzione

Siamo nella regione di Mopti e in questa città d’altri tempi si trova la grande Moschea. Ovviamente non si può entrare, oltre a non essere musulmana sono donna. E qui queste due condizioni non aiutano, anzi impediscono l’accesso a questa meraviglia (come ad altre), con tanto di cartello bene in evidenza all’entrata (accesso espressamente vietato per la mancanza della prima condizione, la seconda va da sé). Mi limito, allora, a girarci attorno, a osservare quelle punte e quei merletti, quella costruzione che mi dice quanto l’uomo possa essere anche meraviglioso e grandioso per la sua meticolosità e ingegnosità. L’edificio in ‘adobe’ o terra cruda, è costruito con il sistema ‘djenné-ferey’, il metodo di costruzione tradizionale che consiste in una sovrapposizione di palle di terra cruda ancora bagnata, atta a ricoprire il ruolo sia di mattone che di legante. L’intera comunità partecipa alla manutenzione della moschea, nell’ambito delle festività annuali: i lavori sono condotti con metodi tradizionali e al suono della musica, che qui si sente spesso un po’ ovunque e che ritma i respiri di ogni giornata. Questa manutenzione regolare è resa necessaria dalle caratteristiche di fragilità del materiale usato per la costruzione, che subisce una forte erosione per la pioggia, l’irraggiamento solare e i cambiamenti di temperatura, che provocano grandi spaccature.

mali-color-marronemali-color-marroneNei giorni che precedono le feste (ho la fortuna di essere lì proprio in questo momento), viene preparata una grande quantità di rivestimento, con diverse e impegnative giornate di lavoro: questo intonaco pastoso deve essere periodicamente mescolato, compito svolto dai bambini che vi giocano dentro. Quindi i giovani si arrampicano sulle pareti della moschea, aiutati dai ponteggi permanenti costituiti dai fasci di rami di palma inseriti nel muro, e procedono a coprire completamente i muri con un nuovo strato di materiale di rivestimento, che viene loro portato da altri uomini. Gli scassati camioncini arancioni che girano intorno, fumacchiano e strombettano. Le donne portano l’acqua necessaria alla fabbricazione dell’intonaco o per gli uomini che lavorano. Tutto è diretto dai membri eminenti della corporazione dei muratori, mentre gli anziani, che hanno compiuto in passato la stessa opera, sono seduti al posto d’onore e assistono all’intera operazione.

mali-color-marroneTutti insieme, in allegria. E’ fortissimo il senso della comunità, della solidarietà e del bene comune che si percepisce in mezzo a tante braccia all’opera. Unico questo senso di appartenenza, che noi abbiamo spesso ormai perso. Anche questo è il marrone Mali. Il paese delle formichine operose, del baobab, l’albero della vita che, per la sua maestosità e imponenza, sembra unire il cielo alla terra, simbolo di una vita che qui scorre difficile e dura un po’ per tutti ma che vince comunque, tutti i giorni, contro asperità ambientali ed economiche. Questi giganti possono raggiungere l’altezza di 25-30 metri, un diametro del tronco di 10 metri e immagazzinare fino a 120.000 litri d’acqua per resistere alla siccità. Con la loro acqua e la loro forza sono fonte di vita loro stessi, dunque, oltre che esserne il simbolo.

mali-color-marroneUn riparo nella tempesta. Le capanne che vediamo intorno a noi sono ordinate come casette dei presepi, ospitano bambini vocianti e comunità coese che si riuniscono intorno al pozzo d’acqua regalato da una lontana cooperazione, spesso da quella saudita. Una ragazza molto giovane, incinta, dagli occhi dolcissimi, mi apre la porta di una casa del villaggio che sto visitando per capire come fare pozzi d’acqua e mi parla attentamente.

Porterò sempre con me il ricordo di quelle giornate polverose, assolate e marroni. Paese e persone indimenticabili. Un sigillo impresso sulla mia anima pensosa che qui si è fermata a lungo a pensare e si è acquietata, almeno per un po’. Bevendo un tè. Profumato e intenso, come l’alito di vita che si respira qui.

Articolo pubblicato su BioEcoGeo, Ottobre 2014. Fotografie della città e i dintorni di Djenné di Simonetta Sandri.

I viaggi in Mali non sono al momento raccomandati. Ma è bello poterne comunque ricordare le bellezze.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.


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