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In questi giorni, con la morte dell’arcivescovo Desmond Tutu, presidente della Commissione verità e riconciliazione che ha operato in Sudafrica tra il 1995 e il 1998 dopo la fine del regime dell’apartheid, sono circolati diversi testi. Uno, postato da Mao Valpiana su Azione Nonviolenta [Vedi qui], mi ha colpita profondamente ed è di questo che oggi vorrei parlare. Con grande semplicità e profondità, Desmond Tutu ci consegna una straordinaria lezione sul trauma nell’età infantile, una faccenda di cui credo di poter parlare non come studiosa (non lo sono) ma per avere ascoltato lungamente tanti e tante adolescenti che avevano vissuto esperienze dello stesso genere.

Per cominciare, non mi sarei mai immaginata che Tutu, per parlare del perdono, incominciasse da un ricordo infantile. Nel periodo dell’apartheid in Sudafrica si sono consumate violenze atroci, gratuite, ci si sarebbe potuti aspettare che scegliesse un esempio più roboante. La radice del suo impegno la trova invece nei suoi primi anni di vita. “Ci sono state moltissime sere, quando ero bambino, in cui dovetti assistere senza poter fare nulla a mio padre che insultava e picchiava mia madre”, scrive.

Forse è inevitabile che sia così. Pietro Pinna [vedi qui] ha più volte motivato la sua coraggiosa obiezione di coscienza nel 1948, la disponibilità ad affrontare i processi, la carcerazione e la perdita di ogni sicurezza, richiamando la forte impressione che, bambino, aveva ricavato dalle case sventrate dai bombardamenti. Non di meno, un’altra maestra di nonviolenza, Pat Patfoort, racconta il principio della sua ricerca non richiamando gli orrori tra hutu e tutsi o le guerre etniche nei Balcani – tutte vicende con cui ha avuto personalmente a che fare – bensì ripercorrendo il suo difficile rapporto con il padre. Tutti loro mi dicono che nella capacità di riavvicinarci al dolore infantile risiede una forza capace di orientare e cambiare la nostra vita, se solo ne abbiamo il coraggio.

Poco più sotto Tutu cita la “disperazione infinita che proviamo quando vediamo persone che amiamo farsi del male a vicenda in modi che non riusciamo a comprendere” e, ripensandoci, si trova “a desiderare di fare del male a mio padre come lui lo faceva a mia madre, e come io non ero in grado di fare da bambino”. Sono altri due nodi molto importanti: quel “farsi del male a vicenda” in prima battuta è difficile capire (stando al narrato, si direbbe che la violenza fosse esercitata da uno solo dei genitori, non reciprocamente; solo più avanti il testo si chiarirà in parte), e l’accettazione del fatto che l’impotenza bambina immagina come unica risoluzione possibile, il ripagare la violenza con altra violenza. Quel tipo di reazione si colloca nei primi passi del nostro sviluppo, ma per alcune persone sono definitivi. Occorre molta intelligenza, sensibilità, empatia, lavoro su se stessi per riuscire a dirsi, ricostruendo la biografia di chi ci ha fatto del male, “la mia speranza è che sarei stato diverso, ma non lo so”.

Frasi simili mi hanno colpito massimamente quando le ho sentite pronunciare da psicoterapeuti che lavorano con persone condannate per atti di pedofilia. Quella violenza è la più lontana da noi, la più esecrabile, risulta difficile identificarsi con gli autori. Ma quei professionisti, con un’onestà che sfiora la vertigine, sono arrivati a dirsi appunto: “La mia speranza è che sarei stato diverso, ma non lo so”. E questa asserzione, se non è una scappatoia cerebrale per deglutire l’indigeribile ma qualcosa di realmente sentito, mina il desiderio di autoassoluzione che ciascuno di noi prova quando desidera essere buono, avere ragione, preservare la propria innocenza.

Una volta che l’autore di violenza sia guardato in modo più maturo, la difficoltà del perdono resta intera (Tutu dice: intellettualmente o su base religiosa si può assolvere, ma non è tutto lì) ma si entra in un altro campo molto ampio, per me essenziale se si vuol capire davvero la violenza assistita. Parlo della confusione che anche i bambini sperimentano, magari senza razionalizzarla, ogni volta che riescono a vedere nella stessa persona il bene e il male. E se si tratta di una persona amata, come un genitore, lo spiazzamento è massimo. Scrive Tutu parlando del padre: oltre all’alcol e alla violenza c’era la sua bontà, intelligenza, sensibilità. Se potessi parlare con lui ora che la morte lo ha portato via “comincerei ringraziandolo per tutte le cose meravigliose che faceva per me come padre, ma poi gli direi… quanto mi feriva quello che faceva a mia madre, quanto mi faceva soffrire. Forse mi ascolterebbe fino in fondo, forse no. Ma comunque lo perdonerei”.

Per me è un’altra lezione. Con queste parole legittima il bisogno di verità che ciascuno di noi può provare quando si tratta di qualcosa che ci ha fatti veramente soffrire. E non una verità pronunciata a casaccio ma detta proprio e particolarmente alla persona che ci ha fatto del male. Se ne facciamo esperienza, ne traiamo una forza liberante. Il fondamento della mediazione penale credo sia proprio qui, nel riconoscere l’umanità dell’altro e nel sentirsi riconosciuti. È molto difficile, naturalmente. È più facile allontanarsi, o rispondere all’offesa in modo simmetrico. Se il dolore allo stato puro (come è quello dei bambini), riletto con occhi adulti e cioè rielaborato, riusciamo a dirlo in modo calmo e sincero a chi ce lo ha fatto patire, noi per primi ne ricaviamo energia. Non si tratta di rinfacciare, ma di dare materia al non detto. Di riconoscere cioè che è.

Nella sua storia Desmond Tutu parla anche del dialogo mancato tra lui e il padre, quello che il genitore gli aveva chiesto in un momento apparentemente qualsiasi, eppure vigilia della sua morte. “Mi ci sono voluti moltissimi anni per perdonarmi per la mia insensibilità”, scrive, ed è anche questo un vissuto umanissimo che, nel dolore, ci può far bene. Sperimentarci imperfetti, o pavidi, o arroganti, o gelosi… ci fa ruzzolare da qualsiasi accomodamento. Ci viene ricordato che “Non ditevi mai nonviolenti” raccomandava Aldo Capitini, “al più amici della nonviolenza”, intesa come “segno di direzione” impresso alla propria esistenza. Con la coscienza del limite è più facile riporre le armi che qualche volta usiamo contro gli altri. Il giudizio è una di queste.

“Una vita umana è uno splendido intreccio di bontà, bellezza, crudeltà, sofferenza, indifferenza, amore e tantissimo altro”, scrive ancora Tutu. “Nessuno nasce bugiardo, o stupratore, o terrorista. Nessuno nasce pieno di odio. (…) La semplice verità è che tutti commettiamo degli errori e tutti abbiamo bisogno di essere perdonati”. Ecco perché, ce lo insegna, l’ammissione dei propri errori risana quanto perdonare gli sbagli altrui, ed è questa anche la base dalla Commissione sudafricana che ha trasformato questa crescita interiore in esperienza collettiva. “Quando siamo disposti ad abbassare le nostre difese e guardare con onestà alle nostre azioni, scopriamo che c’è grande libertà nel chiedere perdono e grande forza nell’ammettere di aver sbagliato”.

Questo articolo è uscito anche sul periodico Azione Nonviolenta il 29/12/2021

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Elena Buccoliero



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