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Molti attribuiscono ad Oscar Wilde l’abusato adagio: “nel bene e nel male, purché se ne parli.” In verità sembra che il detto sia ancora più cinico, se non crudele: “c’è solo una cosa al mondo peggiore di essere oggetto di chiacchiere ed è non essere oggetto di chiacchiere.”

È infatti questo che ho pensato durante tutta la dotta e brillante conferenza che il giovane filosofo canadese Peter Hallwardha tenuto qualche settimana fa su “Democrazia, Rivoluzione e Volontà Politica” presso il non meno dotto e brillante berlinese Institute for cultural inquiry.

Hallward ha ripercorso con puntualità e accuratezza gli sviluppi della recente teoria politica franco-inglese degli ultimi anni, passando amabilmente dai grandi classici del pensiero greco (Platone, Aristotele) fino agli orgogliosamente celebrati teorici moderni francesi (come Deleuze, Foucault, Babiou e altri).

Manifestando una rassicurante fiducia nella democrazia (soprattutto nelle sue declinazioni anglosassoni), Hallward ci ha messo sull’avviso contro due mostri della filosofia politica: il populismo (che derubrica il popolo ad oggetto dell’azione politica, in fondo incapace di un’autentica azione politica) e il post-capitalismo (che frammenta l’idea di unità del popolo secondo il cinico principio romano del divide et impera).

La via di mezzo andrebbe trovata in una connessione virtuosa tra una concezione “unitaria” di popolo e l’espressione di una “volontà” politica. Insomma, Hallward non ha dubbi che tutti quanti, i politici in primis, dovrebbero ricordarsi che il popolo non è né oggetto né bieco insieme di individui, bensì un soggetto capace di volontà, che si è già incarnata in modi multiformi nella storia.

Eppure Hallward, dopo aver lasciato i pingui boschi del suo lontano Canada, essersi rifocillato della rassicurante teoria politica francese e infine insegnando nella democraticissima Inghilterra, è riuscito a non menzionare nemmeno una sola volta l’Italia e il ventennio berlusconiano. In effetti, è riuscito a ricostruire puntualmente una lunghissima tradizione filosofico-politica in tutto l’Occidente, da Platone fino al Sessantotto, fermandosi al Che, senza nemmeno fare qualche passo più in avanti per guardare all’Italia e alla sua recente infausta vita politica degli ultimi anni.

In fondo, non voglio peccare di superbia; non si tratterebbe nemmeno di un “dovere” rispetto ad un Paese che è stato, anche se amiamo scordarlo, uno dei Paesi fondanti dell’Unione Europea nonché una delle maggiori potenze economiche mondiali.

La miopia di questo giovane filosofo della politica nei confronti della esperienza politica italiana di questi ultimi anni è stata stupefacente ma anche preoccupante, non certo perché ci si dovrebbe appassionare della nascita, sviluppo e metamorfosi (o mutazioni) del “berlusconismo” al “renzismo” o al “grillismo,” ad esempio, ma semplicemente perché si dovrebbe purtroppo essere avvezzi all’idea che già altre volte in passato l’Italia è stato l’infausto “laboratorio politico” di esperienze che si sono diffuse altrove come una metastasi.

Chi scrive forse sa troppo poco di filosofia politica per mettere il becco, ma ha vissuto abbastanza in Italia per credere che nessuna teoria politica compiutamente moderna possa prescindere dalla (non ancora conclusa) esperienza della “videocrazia” italiana.

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Federico Dal Bo

È giornalista pubblicista e traduttore, dottore di ricerca in Ebraistica, dottore di ricerca in Scienza della traduzione, residente a Berlino