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Quanti di noi ritengono onorevole contrarre dei prestiti per far studiare i propri figli? Negli Stati Uniti il prestito per poter frequentare l’università è una prassi e ci si indebita di molte migliaia di dollari sapendo che in futuro bisognerà restituirli a rate e per decenni. Quindi si spende oggi più di quello che si possiede, ci si indebita per assicurarsi un futuro da ingegnere oppure da avvocato o addirittura da astronauta e scienziato.
A nessuno verrebbe di imporre al buon padre di famiglia di non contrarre un prestito per migliorare le aspettative sul futuro di suo figlio o addirittura di punire quest’ultimo quando lo si scoprisse a varcare la soglia del college.
Agli Stati invece viene imposto il controllo del deficit di bilancio sui conti pubblici facendolo passare per una cosa logica, auspicabile, di buon senso; e si impiega addirittura l’anno solare come termine per rientrare del proprio investimento come se questo possa convergere con l’anno economico.

Un investimento va visto in termini di ciclo economico: il prestito o deficit fatto per lo studio è un investimento che si calcola su un’intera vita umana, un ciclo economico che solitamente dura dall’iscrizione all’Università, passa per la ricerca di un lavoro, fino al miglioramento delle proprie condizioni di vita sociale. Una durata anche di venti o trent’anni.
Una spesa a defict per un investimento in ricerca sul cancro significa aspettarsi un ritorno, in termini di miglioramento delle condizioni di salute, per le prossime generazioni. Spendo quindi oggi e indebito l’attuale generazione – in termini di moneta, cioè nella realtà in termini macroeconomici e di Stati: “non indebito” – per lasciare una vita più lunga e più sana ai miei figli e nipoti. Tito Boeri eventuale ministro delle Finanze forse calcolerebbe la cosa in maniera diversa: vedrebbe la spesa di oggi come un peso per le future generazioni in termini di soldi, perciò raccomanderebbe di non spenderli oggi per lasciarli ai malati di cancro di domani, i quali, ovviamente, sarebbero molto contenti della scelta ed esulterebbero di essere più ricchi finanziariamente anche se malati di cancro.
Anche in termini politici esiste una differenza tra l’anno solare e l’anno politico, che rimarca la differenza di visione tra lo ‘statista’ e il ‘politico’. In Italia viene comunemente attribuita ad Alcide de Gasperi la frase: “Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione”.

Del resto queste sono le ricette economiche e le politiche consigliate dal Fondo monetario internazionale, che prima di concedere prestiti si assicura che i soldi prestati non vengano spesi in investimenti improduttivi, come la salute o l’istruzione, ma solo che si possa essere in grado di restituirli con gli interessi. Immaginatevi se tutte le casalinghe cominciassero a ridurre la spesa giornaliera e quindi mettessero a tavola ogni giorno meno pane, pasta, vino e smettessero anche di comprare biscotti e brioches per la colazione. Mangiare di meno, spendere di meno, produrre di meno, lavorare di meno, tutto di meno compreso ovviamente i deficit. A quel punto di più avremmo solo la disoccupazione, i poveri, il numero delle aziende costrette a chiudere.
In realtà l’unica differenza tra la politica economica involontaria e immaginaria della casalinga di Vogh(i)era e quella reale e volontaria del Fmi è la cattiveria di fondo: l’una lo farebbe pensando di far del bene, mentre l’altro per i propri interessi e quelli dei creditori finanziari, che mai coincidono con gli interessi del popolo. La politica, concorde nel guardare all’anno solare, all’elezione prossima e alla punta del naso, legifera per l’occasione spaventando e utilizzando i mostri da tutti temuti: shrek, la notte fonda, la Cina, l’inflazione e l’immancabile debito pubblico.

L’errore quindi, o uno degli errori, nel giudicare la bontà di un investimento, è il lasso di tempo che gli si mette a disposizione per la verifica degli effetti e davvero risulta complicato, se non assurdo, immaginare che la spesa di uno Stato possa essere verificata di anno in anno. Uno Stato spende per sanità, ricerca, benessere dei suoi cittadini e persino quando elargisce pensioni o stipendi non fa altro che aumentare la possibilità di spesa e di richiesta di beni, quindi espande la sua economia piuttosto che contrarla. Lo Stato dovrebbe preoccuparsi di come possano essere creati beni e servizi da comprare con i soldi, non se mettere o meno questi ultimi a disposizione della cittadinanza.
La spesa dello Stato è uno degli strumenti a disposizione per governare l’economia piuttosto che subirla, per controllare e modificare i cicli economici ed evitare boom e crisi, per assicurare un futuro alle prossime generazioni senza distruggere quelle attuali.

Come dice l’economista americano Mark Blyth, “sarebbe difficile pensare che oggi avremmo avuto internet, il we, e lo smartphone senza gli investimenti del governo federale partiti negli anni Sessanta”.
Gli effetti delle politiche e degli investimenti macroeconomici degli Stati, come quelli delle famiglie per i figli, si vedono nel tempo. Chi non investe e non spende rimane al punto di partenza e le generazioni future non raccolgono i frutti dell’impegno e della visione di quella precedente.
A cosa ci hanno portato i valori del controllo del deficit, del debito pubblico, del pareggio di bilancio? Bisogna ricordare che sono valori perseguiti e ottenuti non da oggi, ma dall’inizio degli anni Novanta e che proprio questi hanno portato ai disastri attuali, come la svendita del patrimonio pubblico, la mercificazione dei valori di condivisione, partecipazione e cooperazione. Hanno portato ad avere un popolo che lavora, suda e soffre da solo con sempre meno Stato su cui poter contare e sempre più mercato a cui pagare interessi.

Due grafici per sintetizzare. Il primo del Ministero dell’economia e delle finanze, dove si evidenziano i continui surplus di bilancio dello Stato italiano, maggiori dei suoi competitor europei e realizzati per poter pagare gli interessi sul debito togliendo risorse ai cittadini.

Il secondo, invece, mostra dove vanno a finire sangue e sudore della gente comune (fonte:Oxfam).

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info


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