di Raffaele Rinaldi* La Ferrara di sotto
“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri,
allora io reclamo il diritto di dividere il mondo
in diseredati e oppressi da un lato,
e privilegiati e oppressori dall’altro.
Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri”.
(Don Lorenzo Milani)
Non è passato molto tempo da quando è arrivata a Ferrara Samantha Cristoforetti per raccontarci il suo straordinario viaggio nello spazio mostrando al pubblico le immagini mozzafiato proiettate sullo schermo gigante. Il campo visivo si riempiva di panoramiche universali, di metropolitane come grumi di luci che resistevano alla notte e di distese immense di acqua e terra. E chissà se avvicinandosi ancora un po’ non avremmo potuto vedere su questo pianeta anche le cicatrici del passato e le ferite aperte del presente.
Nell’era dei viaggi interplanetari continuano a sorgere muri di cemento armato, confini respingenti costruiti con il filo spinato e le reti elettrificate. Barriere di una umanità contro un’altra parte di umanità: quella più povera. E chissà se oggi ‘zoommando’ ancora di più con le sofisticate strumentazioni di monitoraggio presenti a bordo della navicella non sia capace di vedere anche i nostri piccoli paesi fabbricare le piccole barricate per scacciare uomini, donne e bambini.
Sono tornate le piccole patrie dove ognuno pensa di recintare un micro territorio, innalzare delle bandiere, per dichiarare guerra agli altri illudendo gli abitanti che, rinchiudendosi come cavernicoli, si possa guadagnare ricchezza e benessere, pur tuttavia essendo consapevoli – forse non fino in fondo – che l’umanità ha cominciato a raggiungere benessere e ricchezza quando è uscita dalle caverne.
Effetto della crisi economica, della paura di perdere quel benessere costruito ieri proprio sulla pelle di quelli che arrivano oggi, una difesa contro l’ineluttabile legge del contrappasso con cui fare i conti. I muri di oggi, a differenza che nel passato, non sono difese militari, ma contro la povertà.
Nel quotidiano di operatore sociale vedo gli effetti devastanti di una crisi economica, che prende carne in uomini e donne (italiani e stranieri) che bussano alla porta dei nostri centri di accoglienza e della nostra mensa, ma ancor di più quelli di una crisi generalizzata che permea i livelli più profondi della cultura e dell’ethos sociale, poiché risale dalla viscere della storia il repertorio della demonizzazione e della caccia al diverso considerato nemico e invasore. Si rilega con l’odio la nuova edizione di un vocabolario del cinismo, dove gli interventi di accoglienza vengono squalificati tout-court a pura attività di business, l’etica viene derubricata a ‘patetica’, i soprassalti della legge morale sull’istinto di sopravvivenza vengono liquidati come ‘buonismo’, come se il conio di questi e altri neologismi possa spostare più in avanti la frontiera degli egoismi personali e nazionali. Il tutto in palese spregio dei valori fondanti della cultura ebraico-cristiana, delle categorie della riflessione filosofica sulla persona, e delle convenzioni internazionali sui diritti umani sorte dalle ceneri del XX secolo che hanno modellato quest’Europa andata in frantumi all’urto della prima e vera prova umanitaria (ad intra ed extra). Penso se non abbia avuto ragione Enzensbergher quando affermava: “quando più un paese costruisce barriere per difendere i propri valori, tanto meno valori avrà da difendere”.
L’immigrazione dei nostri giorni è l’unico fenomeno di massa dal dopoguerra, ci troviamo davanti a una svolta epocale. L’accoglienza è una risposta a questa sfida che bisogna affrontare poiché, se da una parte il grado di civiltà consiste nella capacità di intrecciare rapporti, se è vero – come è vero – che nella relazione e nell’incontro nasce il futuro, dall’altra parte implica comunque e necessariamente un dialogo costruttivo, intelligente, faticoso, esigente, che va al di là delle posizioni estreme come lo spontaneismo dell’apertura illimitata oppure la chiusura e il respingimento. Forse l’accoglienza è il tempo e lo spazio privilegiato per avvicinarsi alla storia e alle storie dove di fronte all’epifania dei volti e delle singole biografie cadono quegli stessi stereotipi che una volta offesero e umiliarono i nostri padri in terra straniera e che noi oggi rovesciamo su di ‘loro’ con la rivalsa di una vendetta storica o per la rimozione del nostro recente passato migratorio. Chissà se poi alla fine dei conti questa prossimità non si riveli una carta vincente anche per le politiche di sicurezza.
Ed è nella precisa prospettiva della promozione della persona che possiamo vedere e distinguere meglio da una parte la necessità di tutelare la dignità umana di chi è accolto e di chi accoglie, dall’altra le criticità del ‘sistema accoglienza’ che vanno superate in una corresponsabilità etica e sociale. Per quanto riguarda i richiedenti asilo sarebbe auspicabile avere delle micro-accoglienze per favorire le relazioni in un determinato contesto sociale (ma bisogna che si allarghi il numero delle comunità accoglienti), l’aumento delle commissioni e la riduzione dei tempi di valutazione, fare una legge per non consentire un’accoglienza passiva, ma impegnata al servizio della comunità accogliente, superare l’atteggiamento assistenziale e insistere sulla ridistribuzione equa sul continente e sulle politiche di sviluppo vero e non ipocrita nei paesi di provenienza.
Certo è difficile. Ma è il compito che ci spetta qui e ora, ed è una questione non solo di fenomeni epocali, ma di scelte davanti a questi ‘incontri ravvicinati del primo tipo’.
Sarebbe più semplice cacciarli via tutti, si farebbe prima a respingerli con l’urlo mostruoso: – Via! Via! Via! – fino ad avere la voce sempre più rauca e perdere le parole, il suono si disarticola progressivamente in insulti e poi scendere ancora per rientrare nella stalla della storia dove poter appoggiare la clava e riposare l’unico occhio stanco.
*Direttore dal 2012 dell’ Associazione Viale K – ONLUS e responsabile dello sportello ferrarese di “Avvocato di strada”.
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