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“Le parole sono importanti”, urlava disperato Nanni Moretti in ‘Palombella rossa’ all’improvvisata giornalista che si beccò pure un ceffone per come si esprimeva nel fare le domande. Ecco, siccome le parole sono importanti parliamo del reddito di cittadinanza, come l’ha chiamato sin dall’inizio il M5s e grazie al quale ha fatto incetta di voti al sud.
Allora, partiamo col riflettere sul concetto di cittadinanza. Tutti sono cittadini di questo Stato e in quanto cittadini hanno diritti e doveri riconosciuti dalla Costituzione. Uguali per tutti. Dunque, essendo tutti cittadini a pari titolo, tale reddito dovrebbe essere riconosciuto a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione occupazionale, patrimoniale, sociale. Proprio solo in quanto cittadini. Altrimenti non si chiamerebbe reddito di cittadinanza, giusto? Sicuramente sarebbe una misura egualitaria sul piano dei diritti di cittadinanza e dovrebbe essere cara alla sinistra che ha fatto dell’uguaglianza una delle sue bandiere principali.
Dice, ma la solidarietà nei confronti di chi non ha lavoro o l’ha perso dove la mettiamo? Se questo è il senso che si voleva dare al reddito di cittadinanza, allora bisognerebbe cambiargli il nome. “Le parole sono importanti”. E allora chiamiamolo reddito di inclusione, sussidio di disoccupazione, sostegno alle povertà, come vi pare. Ma non reddito di cittadinanza. Perché se me lo chiami così io che mi alzo ogni mattina alle sei e mezza per essere puntuale in ufficio alle otto (e sono tra i più fortunati perché non faccio il pendolare, con tutti i disagi che ciò comporta) e farmi le mie quaranta ore settimanali, mi alzo e dico: scusa, sono anch’io un cittadino, perché il reddito di cittadinanza lo date solo a chi non lavora? Chi sono io, un cittadino di serie B? Non sono anch’io un cittadino che per di più paga le tasse con le quali dovreste poi pagare il reddito di cittadinanza? Capite che mi sentirei cornuto e mazziato. E a quel punto mi arrabbio. Non si capisce perché io debba sacrificare un terzo della mia vita a vendere la mia forza lavoro, per mantenere altri cittadini nullafacenti.
E allora oltre a cambiare nome al reddito che dir si voglia provo a fare una proposta, anzi due. La prima. Siccome lavoro quaranta ore a settimana, in buona compagnia di qualche altro milione di lavoratori, e c’è chi il lavoro non lo trova o l’ha perso, stante il livello di innovazione tecnologica esistente, oggi non c’è altra alternativa che dividere il lavoro che c’è tra il maggior numero possibile di persone. Lo dice persino il Papa. Come? “Lavorare meno lavorare tutti”, si diceva una volta. E quindi riducendo l’orario di lavoro settimanale a parità di salario. Scoperta banale, ma è quanto è sempre stato fatto storicamente ad ogni passaggio della rivoluzione tecnologica. Non mi direte che oggi si lavora quanto si lavorava all’inizio del Novecento? Oddio, per alcuni è ancora così, soprattutto nelle campagne e soprattutto per alcune categorie di persone e soprattutto in alcune aree del mondo. Non dico di portarlo a trentacinque ore come in Francia (un altro esempio di Europa a due velocità), ma perlomeno di parificare l’orario settimanale del settore privato al settore pubblico che da decenni, qui da noi, è a trentasei ore settimanali. L’orario di lavoro di quaranta ore nel privato è fermo agli anni settanta quando si ottenne sull’onda delle lotte di popolo per via contrattuale. L’ultima legge che stabiliva l’orario settimanale risale all’inizio del Novecento che lo decretò in quarantotto ore. Da allora non si è più legiferato in materia. Da che mondo è mondo il movimento dei lavoratori e i sindacati sull’onda delle innovazioni tecnologiche hanno sempre condotto lotte per la riduzione dell’orario a parità di salario. Oggi questa sembra essere una bestemmia persino per i sindacati. O per lo meno per alcuni sindacalisti. Quando tempo fa provai a fare questi ragionamenti su facebook (povero illuso!) un sindacalista (di cui non faccio il nome per carità di patria) commentò sarcastico che simili proposte le aveva sentite in alcuni salotti. La mia risposta fu che probabilmente era così visto che sono i salotti che ormai frequentano molti sindacalisti. Non l’ho più sentito. È ovvio che gestire la contrattualistica esistente è più comodo, a volte è meno conflittuale altre no, di certo non necessita di una linea programmatica che impegni in una lotta politica riformista e di equità a lungo termine. Perché di questo si tratta: di equità. Tra chi un lavoro ce l’ha e chi non ce l’ha, tra chi lavora quaranta ore a settimana e chi ne lavora trentasei, tra chi lavora troppo con gli straordinari che si continuano a fare in molti settori e chi non lavora per nulla. Equità, un tema espunto dall’orizzonte politico-sindacale.
La sinistra ha sempre pensato che una volta realizzata l’uguaglianza automaticamente si sarebbe realizzata anche l’equità considerata una sorella minore, a volte sinonimo della prima. “Le parole sono importanti”, appunto. Non c’è bisogno di scomodare sociologi dell’educazione quali Pierre Boudieu per dimostrare che applicare l’uguaglianza a soggetti diseguali nelle condizioni di partenza si commette un’altra diseguaglianza. Basterebbe rileggersi “Lettera a una professoressa” di Don Milani per comprendere a pieno il concetto. La dimostrazione eclatante di quanto sia radicato nella coscienza della sinistra questo errore concettuale di base è data dalla recente costituzione del partito o movimento che dir si voglia di Liberi e Uguali. Ma uguali a chi? A che cosa? Mi sono chiesto appena uscito il nuovo movimento.
Tornando al tema dell’equità nelle condizioni di lavoro, non va trascurato il fatto che con l’innalzamento progressivo dell’età pensionabile prevista dalla legge Fornero, c’è un altro aspetto da considerare e cioè un evidente collo di bottiglia al tourn over. L’uscita dal lavoro si allunga nel tempo e l’entrata di forze giovani ritarda. Una politica miope per l’efficienza stessa dell’intero sistema produttivo.
La seconda proposta. Se proprio si vogliono usare quelle risorse per dare dignità alle persone usiamole come incentivo alle imprese a ridurre l’orario di lavoro e ad assumere giovani disoccupati con contratti solidi. Usiamoli per dare un fondamento all’articolo uno della Costituzione. Che non sia solo il nome dell’ennesimo movimento politico, ma una linea programmatica riformista seria su basi e proposte solide.

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Giuseppe Fornaro



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