“Dal profondo” ventre della terra. Storia di Patrizia, madre minatrice nel Sulcis
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Una donna, una miniera. La voce di un mondo chiuso e ferite ancora aperte. Una lunga notte senza fine, senza stagioni, senza tempo. Un lavoro secolare che è orgoglio, maledizione. Chilometri di gallerie. Buio. Uomini neri. 150 minatori, gli ultimi, pronti a dare guerra al mondo “di sopra” per scongiurare una chiusura ormai imminente. E, con loro, Patrizia, l’unica minatrice in Italia che dialoga con un padre morto, un ricordo mai sepolto.
E’ questa la sinossi di “Dal Profondo”, il film di Valentina Pedicini, girato interamente 500 metri sotto il livello del mare, in Sardegna, nelle miniere del Sulcis.
Abbiamo intervistato l’autrice e regista, a Roma, al Teatro Elsa Morante, nell’ambito della Rassegna Cinema di Periferie, ideata e curata dalla Direzione Cinema del MIBACT.
“Dal profondo” è stato premiato come migliore documentario italiano al Festival internazionale del cinema di Roma ed è Menzione speciale ai Nastri d’Argento 2014.
Valentina, il tuo film sembra raccontare di un mondo chiuso, quello della miniera, e di ferite ancora aperte, quelle dei minatori del Sulcis in Sardegna. E’ così?
Sì, credo che questa sia una sintesi perfetta: “Dal Profondo” è un mondo chiuso e una ferita ancora aperta. Mi riferisco sia al film che alla situazione che ho trovato quando ho deciso di girare un documentario su questo tema. La miniera è un mondo chiuso, perché è un mondo cristallizzato, che è rimasto in qualche modo fermo a un secolo fa, nonostante le innovazioni tecnologiche. E’ un mondo in cui, per sua costituzione, il passare del tempo non esiste. Scendere in miniera significa scendere in un luogo strano, dove il passato si confonde continuamente con il presente. Ed è una ferita aperta perché non c’è un futuro. Dal punto di vista lavorativo perché il carbone appartiene al passato e anche la miniera dove ho girato il film, l’unica miniera d’Italia, è a rischio chiusura ogni giorno, ormai da dieci anni. E, ancora, è una ferita aperta perché nonostante il legame dei minatori con il mondo che hanno costruito è un posto dove ci si augura che nel 2013 non debba lavorare più nessuno.
Perché hai scelto Patrizia, una donna, come narratrice e file rouge del tuo viaggio nelle viscere della terra?
Ho scelto di seguire Patrizia in questo viaggio al centro della terra un po’ perché il primo rapporto umano che ho avuto, quando sono scesa in miniera, è stato con lei. E’ stata una vicinanza immediata, una solidarietà al femminile. E, visto che quando si gira un documentario, il rapporto con le persone è uno degli aspetti fondamentali per portare a casa un film eticamente giusto, Patrizia è stata scelta non solo perché è l’unica minatrice donna, ma anche perché è un po’ la minatrice del mio cuore, se così posso dire.
Patrizia è l’unica donna minatrice d’Italia, un’unicità che si fa paradigma?
Sì, in realtà in miniera ci sono anche altre donne, però lavorano in superficie. Patrizia è tecnicamente l’unica donna che scende nel sottosuolo. E, sicuramente, dal punto di vista della regia il fatto che lei conosca così bene la miniera, la sua storia di figlia di un padre minatore morto per la silicosi, mi è sembrata subito una storia paradigmatica. La sua è la storia di tutti i minatori che ho incontrato, una storia che racchiude l’unicità di un lavoro declinato al femminile con la capacità di raccontare tutta la Sardegna. Poi, anche se forse le metafore sono un po’ banali, la miniera dà la sensazione di un antro materno, di una donna, di una madre, quindi mi sembrava interessante che fosse una donna a raccontare. A un’altra donna.
Il tuo non è un documentario di denuncia, piuttosto un poetico ritratto della dignità dei minatori, che tu definisci guerrieri.
Sì, è questo il cuore del film dal punto di vista cinematografico. Non volevo fare un film di denuncia, non volevo fare un reportage televisivo e non volevo fare neppure un film politico in senso stretto. Volevo fare cinema e raccontare in modo duro una realtà, che è per lo più sconosciuta. Sono partita con questa idea molto forte e molto rischiosa con cui ho dovuto fare i conti perché mi sono trovata fra le mani una storia bomba, che avrei potuto far esplodere per un mio ritorno personale. Invece ho scelto fin da subito di fare cinema, di fare un film non sui minatori ma con i minatori. Questa è la sfida del mio lavoro: tentare sempre di fare un film “con” le persone, non “sulle” persone.
Vuoi dire che, come regista e come donna, avverti il pudore di mettere in piazza le anime degli altri?
Assolutamente sì. Quando scrivo e giro, non dimentico mai che ho per le mani della materia viva, pulsante, delle esistenze, delle vite. E che c’è una linea di confine che deve essere assolutamente rispettata. In più, in miniera, ho avuto a che fare con persone davvero speciali, che mi hanno regalato la più grande vittoria quando mi hanno detto che il film ha restituito loro la dignità di essere minatori. Questo vuol dire che il mio lavoro ha avuto un senso. I minatori sono gli ultimi guerrieri del sottosuolo, dei combattenti. L’occupazione che hanno vissuto è solo una piccola battaglia, se confrontata con la guerra che combattono ogni giorno. E questo mi ha aiutato a fare un film poetico, epico più che politico.
Che cosa ti porti via dalla miniera?
Mi porto via sicuramente l’esperienza umana condivisa con i minatori. Non è retorica, vivere così profondamente per tre anni insieme a loro mi ha cambiato umanamente e me ne rendo conto anche in alcuni episodi della mia vita normale. Ad esempio, a volte esco, mi fumo una sigaretta al sole ed ecco che con me ci sono anche loro, in 150, a mangiarsi polvere di carbone, 500 metri sotto terra. Nella mia vita ci sono 150 esistenze in più, di cui io mi ricordo e spero che chi veda il film possa ricordare che ci sono 150 persone, che fanno questo lavoro e vivono in queste condizioni. Dal punto di vista della regia, mi porto via il grande privilegio, voluto cercato e per cui ho combattuto, di aver girato in un luogo ostile, difficilissimo a cui pochissimi hanno avuto accesso e in cui pochissimi si sono permessi di fare cinematograficamente e tecnicamente quello che abbiamo fatto noi, lavorando duramente anche fisicamente.
Che cosa hai lasciato là?
Fare un film che è ha richiesto una lavorazione di tre anni significa investire la propria vita, sia dal punto di vista umano che lavorativo, significa fare un percorso come persona e come regista e quindi lasciare molto di se stessi. Che cosa lascio? Sicuramente un pregiudizio perché io sono arrivata con la stessa domanda di tutti in testa: come è possibile che voi lottiate per un posto di lavoro così terribile? E come ogni straniero che arriva, avevo un pregiudizio e ci ho messo tantissimo tempo a capire come si fa ad amare un posto così. Poi sono stata in miniera e ho capito che non è solo una questione lavorativa, non è solo la paura isolana dei sardi di allontanarsi dalla propria terra, non è solo una questione economica, ma che si ha a che fare con un luogo stranissimo, che crea una dipendenza anche fisica e psicologica. In più, quel mondo loro lo hanno costruito, lì sotto ci sono i loro genitori, i ricordi dei loro nonni, le loro infanzie e quindi ho imparato che quando racconterò la prossima storia avrò meno pregiudizi in generale. Poi ho lasciato tanto cuore. Io sono molto legata ai minatori e devo dire anche alla miniera fisicamente. Anche io sono uno di quelli che ha sentito il fascino stranissimo di quel posto, il mal di miniera, e quindi ho lasciato la voglia di tornare, anche se non so in che forma. Mi sento cambiata da questa esperienza e quando un lavoro ti cambia vuol dire che hai al tempo stesso un grande privilegio e una grande responsabilità.
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Chiara Bolognini
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