Dai campi al campo per la rivincita: un calcio al pallone e uno al razzismo
Siamo in Calabria, una delle regioni più controverse della nostra cara Italia. Da una parte panorami mozzafiato, il calore della gente e buon cibo; dall’altra, l’ombra delle “n’drine” mafiose, dell’omertà e un tessuto sociale che sembra sgretolarsi giorno dopo giorno. E’ qui però, che nasce speranza.
Sono una ventina, tutti africani: senegalesi, ganesi, ivoriani e altri provenienti addirittura dal Burkina Faso. Sono calciatori, o meglio, braccianti-calciatori. Sì, perché di giorno lottano per un tozzo di pane, si spaccano la schiena nei campi di agrumi per riuscire a mangiare qualcosa e continuare la loro vita di stenti e fortune.

E’ dopo il lavoro però che arriva la parte più bella della giornata: la sera. Ad allenarsi, a sfogare la rabbia, ma soprattutto la passione sul terreno di gioco. Via gli stivali da lavoro, è il momento delle scarpe coi tacchetti. Vecchie, consumate, ma quanto mai desiderate. Arrivano all’allenamento stravolti, ma fanno di tutto per essere nell’11 titolare. Il loro stadio, in senso lato, è la Piana di Gioia Tauro: arrivano da paesi come San Ferdinando, Rosarno, Palmi. Posti difficili in cui vivere, soprattutto se sei un immigrato e non hai un lavoro stabile. Si chiamano “Knights of the altar” (l’acronimo Koa è il nome della squadra di calcio, invece), i “Cavalieri dell’altare”, nome di un gruppo gospel composto da immigrati che, come il team sportivo, fa parte di “Uniti contro le frontiere”, progetto umanitario che include anche la formazione e l’alfabetizzazione.
Tutto nasce nel 2010, da un’idea di Don Roberto Meduri, sacerdote della parrocchia Sant’Antonio da Padova situata nella contrada Bosco di Rosarno: prima per quei ragazzi il pallone era solo un passatempo, un modo per ingannare il tempo quando non si lavorava. Ora è un vero e proprio impegno, giocano infatti in terza categoria. Lo scopo del progetto è quello di integrare i ragazzi africani nel tessuto sociale della zona, in attesa che trovino un impiego più soddisfacente e saldo.
L’allenatore è Domenico Mammoliti, allenatore di Gioia Tauro con diverse esperienze in panchina; il capitano invece, la guida tecnica in campo della squadra, è il 26enne senegalese Khadim Seye, che nel suo Paese ha anche collezionato qualche presenza con la nazionale Under 17 e ora è il capitano del Koa. La domenica si va a giocare in treno, poi a piedi fino al campo di gioco. Sempre più spesso però, qualche volenteroso mette a disposizione la propria macchina. Anche nell’organizzazione si è “squadra”.
Partita dopo partita, i giovani africani hanno preso consapevolezza dei propri mezzi, ormai si sentono a casa a scendere in campo con la maglia da calcio. Le divise sono gialle e nere, ricordano i colori dell’Africa, insieme al verde, il colore della Piana. Un modo per affrontare il razzismo, piaga sociale quanto mai estesa in Italia, guardarlo in faccia e sconfiggerlo attraverso l’integrazione e la speranza che si legge negli occhi di questi ragazzi. Un futuro migliore li attende, gli agrumeti e gli insulti, in quelle domeniche di calcio, sono un ricordo lontano.
Foto di Salvatore Colloridi

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Alessio Pugliese
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)