Nessun romanticismo, ma duro lavoro e nuove sfide per cercare un punto d’equilibrio tra mercato, produzione e commercializzazione di frutta, verdura e cereali nell’interesse dell’uomo, della natura e, non ultimo, di una sana economia. Un processo indispensabile cui si affiancano alcune esigenze: creare nel Ferrarese un marchio di prestigio spendibile a livello nazionale e internazionale, puntare sull’innovazione applicata all’agricoltura e sulla multifunzionalità delle piccole aziende. E’ la chiave di lettura che Stefano Calderoni, 33 anni, ex assessore provinciale e presidente della Confederazione italiana agricoltori di Ferrara, dà a un comparto su cui è fondata gran parte della nostra economia. “La nostra agricoltura è diventata con il passare del tempo sempre più industriale, sicché lo spazio per i giovani e le piccole imprese è sempre più marginale – spiega – Tra gli aspetti penalizzanti c’è poi la mancanza di identità delle nostre produzioni. Nonostante i 7mila ettari coltivati a pera, che ci rendono leader della produzione nazionale di cui deteniamo il 35 per cento, non abbiamo una reputazione tale da incidere come si potrebbe sul mercato nazionale e internazionale”.
Le aziende familiari vanno perdendosi, nulla sembra favorire l’insediarsi di imprese giovani o rinnovate, oggi chiamate a fare i conti con affitti del terreno sempre più alti. La maggior parte della terra è nelle mani di un pugno di produttori così, come ogni cosa rara, il suo costo lievita: “Nell’arco di poco tempo il prezzo delle locazioni è raddoppiato – dice – se l’affitto di un ettaro si aggirava sui 700 euro, oggi può arrivare a 1.500”. La situazione non è brillante tanto più in rapporto al mancato rendimento degli investimenti: “Si arriva a produrre a 30 per vendere a 25 centesimi al chilo”, sottolinea. A farne le spese sono soprattutto le piccole realtà, destinate a scomparire per la mancanza di ricambio generazionale e per le difficoltà, operata principalmente dalla pressione fiscale, imposte a chi vorrebbe rilevarle. “Subentrare nella gestione, magari avendo lavorato nella medesima azienda, ha costi altissimi – continua – E’ il motivo per cui abbiamo proposto di inserire nel disegno di legge una serie di sgravi per incoraggiare la continuità di attività altrimenti destinate a morire”.
L’assenza di un’identità di pregio, situazione molto ben risolta dal marketing intrapreso dal consorzio Melinda, ci ha portato a ignorare le nostre opportunità, una delle quali sta nel far fruttare al meglio il riconoscimento Unesco di cui godiamo: “Il consorzio trentino dà oggi il prezzo della mela. Ha fatto del marketing, ha usato l’e-commerce raggiungendo risultati importantissimi. Se noi fossimo californiani, avremmo già emesso un nostro marchio, sfruttato i vincoli e i vantaggi di vivere sotto l’ombrello dell’Unesco – continua – Il tentativo di essere riconosciuti come riserva nell’ambito del progetto L’Uomo e la biosfera poteva rivelarsi una buona occasione anche per l’agricoltura, ci avrebbe permesso di recuperare le caratteristiche delle produzioni di pianura scomparse con l’avvento dell’agricoltura industriale”.
La concentrazione agricola ha cancellato non solo la varietà di piante, ma anche la vocazione a produrre cibo, che insieme alla disponibilità d’acqua, è oggi uno degli elementi fondanti della geopolitica. Se la speculazione aggressiva inghiottirà il mercato, una grande fetta di mondo sarà destinata a un ben triste destino. E’ un problema che riguarda tutti da vicino. “La Cina compra terra in Africa, la fa coltivare alla manodopera locale e si porta a casa le produzioni. In questo non c’è alcuna solidarietà sovralimentare – prosegue – E’ la questione delle questioni, ne capiamo la portata, ma il nostro modello economico condiziona l’attività degli agricoltori. I prezzi li valuta la borsa, non siamo noi a determinarli, li subiamo”. Soluzioni? “Stiamo cercando di sviluppare una proposta sindacale basata sulla difesa del territorio, sull’etica e l’identità – spiega – Non è nella prossimità che si consolida il miglior rapporto tra produttore e consumatore, ma nel modo rispettoso di produrre a tutti livelli. E’ innegabile che dietro ai prezzi bassi ci sia un processo di sfruttamento a cominciare dalla manodopera”. Invertire la marcia è possibile? Si spera nella politica e ci si prova con progetti come “Donne in campo”, con le produzioni di nicchia, biologiche, diversificate, le collaborazioni sperimentali come quella con l’Istituto Navarra e il Cnr, le sturt up dedicate all’innovazione che vanno dalla domotica al servizio dell’agricoltura alle aziende a impatto zero, dalla fattoria didattica alle produzioni solidali di filiera corta come “Terra-Luna”. E’ancora un microcosmo a visibilità ridotta, ma tradisce vivacità, desiderio di esistere, di diventare futuro.
C’è poi il prossimo convegno FuturPera, il salone internazionale della pera, in programma dal 19 al 21 novembre, una ricchezza per la città e la sua provincia coinvolte per tre giorni dall’iniziativa. “Si tratta di un focus sulla pera pensato per scrivere una sua nuova storia, per stimolare il consumo interno e l’export. Non basta saper produrre è necessario saper vendere bene il proprio prodotto – spiega – Esportiamo il 48 per cento delle pere in Germania, lo facciamo con una ventina di piattaforme, mentre i nostri concorrenti Belgio e Olanda, lo fanno insieme, consapevoli del fatto che le strategie commerciali non possono prescindere dalla massa critica e dalla velocità della risposta alla domanda di fornitura”. L’evento ospita anche Interpera, dedica spazio all’innovazione, concilia la parte tecnica alle tendenze di mercato, si adopera per l’accoglienza dei compratori stranieri e per la prima volta propone il “business to business. FuturPera è un appuntamento importante per concentrarsi sulle esportazioni. “Pur restando il terzo brand, fenomeno dovuto all’aumento dei consumi, nell’export siamo più indietro degli altri – dice – La Germania arriva a 20 miliardi di euro e, i dati Nomisma, danno in crescita i paesi del sud America”. Correre ai ripari è indispensabile, tanto più a fronte di recenti scricchiolii legati al fermo dell’export in Russia dovuto, secondo Calderoni, non tanto all’embargo quanto al crollo economico del Paese, e in Libia, dove il prodotto di piccolo calibro aveva un suo mercato, cancellato dalla pericolosità dei venti di guerra.
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Monica Forti
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