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di Cecilia Sorpilli

Ci si sposa di meno e più tardi e le convivenze aumentano vertiginosamente; lo conferma l’Istat nel report “Matrimoni, separazioni e divorzi”, in cui emerge che le convivenze in Italia sono arrivate a 641.000 nel 2013-2014. Aumentano soprattutto le convivenze giovanili vissute come “matrimonio di prova” e come sostiene Anna Laura Zanatta, docente di sociologia della famiglia presso l’Università di Roma La Sapienza, “Il matrimonio sta cambiando natura: esso si sta trasformando da rito di passaggio all’età adulta in rito di conferma della vita familiare e di coppia”. È possibile ipotizzare che la preferenza dei giovani per la convivenza sia una delle risposte all’incertezza dell’occupazione giovanile perché viene vissuta come una “strategia adattiva” alla precarietà delle condizioni di vita; la convivenza, infatti, viene percepita come meno vincolante rispetto al matrimonio per quanto riguarda l’aspetto economico.
Dalle ricerche sociologiche emerge che le persone conviventi sono più giovani, ma generano meno figli e hanno un grado elevato di istruzione e un buon inserimento nel mondo del lavoro. Singly, professore di sociologia presso l’Università Paris Descartes, considera la convivenza come un compromesso tra le generazioni. Secondo lo studioso la convivenza tende a ridurre le distanze tra la maturità biologica e sociale dei giovani in una società in cui le relazioni sessuali sono sempre più precoci, mentre la stabilizzazione nel mondo del lavoro sempre più tardiva. La convivenza permette di iniziare una vita di coppia senza abbandonare gli studi od ostacolare l’inizio della carriera professionale e per questi motivi le famiglie iniziano ad accettare questa nuova forma di vita familiare scelta spesso dai propri figli.
Barbagli, professore emerito di sociologia dell’Università di Bologna, individua alcune motivazioni che spingono le coppie alla convivenza. Ci sono persone che convivono perché risposandosi perderebbero alcuni benefici economici, come l’assegno di mantenimento per chi è divorziato o la pensione di reversibilità per chi è vedovo, altre che convivono perché rifiutano l’idea del matrimonio e altre ancora che scelgono di convivere perché contestano la divisione tradizionale dei ruoli all’interno del nucleo familiare. Infine c’è chi sceglie la convivenza come matrimonio di prova che serve a rassicurare chi teme di aver scelto il coniuge sbagliato e secondo Barbagli queste convivenze “sono figlie dell’ansia, della paura condivisa da uomini e donne che anche il proprio matrimonio finisca a pezzi come quello dei genitori o degli amici”.
All’interno di questa costellazione familiare possono inserirsi anche le famiglie omosessuali, anche se la recentissima legge del 20 maggio 2016, n. 76 “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, oltre a tentare di disciplinare legalmente il variegato mondo delle convivenze, ha istituto “l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale”, riconoscendo a queste famiglie alcuni diritti civili fin a ora negati.
Colombo, professore ordinario di sociologia dell’università di Bologna, spiega che le coppie omosessuali si innamorano e hanno esigenze affettive e di sostegno reciproco, instaurano relazioni stabili e durature, desiderano dei figli al pari delle coppie eterosessuali. Non essendoci all’interno di una coppia omosessuale differenze di genere, in queste coppie non si verifica la tradizionale divisione nella distribuzione dei ruoli tra uomini e donne e quindi si suddividono i compiti familiari in modo molto più egualitario. Molte famiglie omosessuali hanno figli; alcuni hanno figli nati o adottati durante una unione eterosessuale precedente, altri sono diventati genitori grazie alla fecondazione assistita e altri sono riusciti a intraprendere il percorso dell’adozione nei paesi in cui ciò è permesso. Le famiglie omosessuali con figli devono affrontare numerosi problemi, come disapprovazione dell’ambiente sociale, mancanza di norme sociali che regolano ruoli e comportamenti, in particolare tra figli e partner del compagno o della compagna; purtroppo in Italia la legge sulle unioni civili non ha colmato questa lacuna legislativa.
Appare opportuno chiarire, poiché vi è un acceso dibattito attorno a questo tema, che l’omosessualità dei genitori non influisce in senso disfunzionale sull’identità di genere, né sull’identità generale dei figli. Brofenbrenner, professore emerito di sviluppo umano e psicologia alla Cornell University, nonché creatore della disciplina ‘ecologia dello sviluppo umano’, riferendosi alle teorizzazioni sull’attaccamento, sostiene che il bambino ha bisogno non solo di un essere umano con cui avere una relazione affettiva, ma anche di un’altra figura che dia supporto, appoggio e risalto alla prima, aggiungendo che è utile, ma non assolutamente necessario, che queste due persone siano di sesso opposto. Daniel Stern, psichiatra e psicoanalista statunitense nonché uno dei principali esponenti dell’Infant Research in psicoanalisi, definisce la genitorialità come una funzione autonoma e processuale dell’essere umano preesistente all’atto del concepire, che ne è soltanto una, seppur fondamentale, non necessaria espressione. La genitorialità viene descritta come il prodotto simbolico/rappresentazionale delle primissime interazioni di cura, delineandosi così come una dimensione interna che fa parte dello sviluppo di ogni persona, generata e sperimentata grazie alla relazione con l’altro. Essendo quindi la genitorialità una funzione generata dalla sperimentazione della relazione di cura con l’altro e non un ruolo, appartiene e può essere esercitata da ogni individuo a prescindere dal proprio orientamento sessuale. Per tali motivi anche le coppie omosessuali hanno il diritto e le capacità di esercitare una funzione genitoriale adeguata, come dimostrano ricerche riguardo minori cresciuti in famiglie con genitori omosessuali che hanno avuto un corretto sviluppo psicofisico al pari di bambini cresciuti con coppie eterosessuali.

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Redazione di Periscopio



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