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Non ho idea di quanti abbiano visto Report lunedì 2 dicembre su Rai Tre, dedicata a Consip e Mepa, ma i motivi per essere basiti sono così tanti che stavolta viene il dubbio di avere visto una puntata di Scherzi a parte.
E invece.
Cominciamo col dire che Consip (acronimo di Concessionaria Servizi Informativi Pubblici) è una spa pubblica, operativa dal 1998 per essere la centrale unica degli acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione. Il Mepa, invece, è il mercato elettronico creato nel 2003 al quale gli uffici pubblici si rivolgono per comprare carta, matite, computer, arredi e, come non avrebbe mai detto Dante Alighieri, quant’altro.
L’idea in sé è buona, chiosa la brava Milena Gabanelli: invece di lasciare un mercato da una montagna di soldi, come in passato, ad amici e parenti, si istituisce un luogo unico che, muovendosi in grande, riesce a spuntare prezzi più vantaggiosi.
L’obiettivo è tagliare la spesa pubblica, che non può continuare ad essere la prateria di tutti e nessuno.
Tralasciando per un momento i risultati, più o meno un autogol da fare arrossire perfino Comunardo Niccolai, siamo così sicuri che l’idea fosse buona in partenza?
Sulla carta il ragionamento non fa una grinza.
Ma qualcuno ha pensato che sarebbe stato declinato in Italia? E più precisamente nella città emblema di un rapporto da sempre non proprio ascetico con il potere: Roma.
Mica Francoforte.
E poi cosa pensare delle nomine nella società? Ovviamente solo i maligni possono sospettare che la politica italiana sia incline a scegliere persone che poi restituiscano con gli interessi il favore.
Tanto più che centralizzare le forniture significa fare appalti per importi talmente elevati, che non ci vuole Einstein per capire che non tanti hanno le spalle grosse da presentare offerte.
La cartolibreria giù all’angolo, per esempio, potrebbe avere qualche problema già a leggere il capitolato.
E quante saranno le imprese che, metti nel settore delle pulizie come rilevato dalla sveglia redazione di Report, in Italia possono schierare un tale numero di scope?
Siccome potrebbero essere meno di cinque, come si ascolta in un’intercettazione telefonica, viene il sospetto che questi si mettano d’accordo su un bottino da milioni e milioni di euro: stavolta a me, la prossima a te.
Naturalmente solo i maliziosi possono pensarlo.
Fatalità vuole che le due cornette telefoniche in questione facciano capo a realtà imprenditoriali attorno al mondo cooperativo rosso e ciellino.
Poi vai a spiegare che i valori non sono negoziabili.
E siccome il tutto potrebbe avvenire sotto lo sguardo tiroideo della politica, che mani dietro la schiena assiste compiaciuta a questo dinamismo imprenditoriale cacio e pepe, non stupisce più di tanto se il buonumore è prolungato da donazioni, magnanime e longobarde aggiungerebbe Totò, per finanziare campagne elettorali e candidature.
A destra e a manca, perché in Italia chi comanda al momento in cui parte un affare, non è detto sia lo stesso quando la partita arriva alla stretta di mano finale.
Perciò ndò cojo cojo, appunto.
Ma le telecamere della Gabanelli non si sono fermate qui. Sono entrate in un ufficio pubblico e hanno filmato.
Salta fuori che il prezzo di una cosa qualsiasi è più conveniente proprio al negozio all’angolo, piuttosto che sulla piazza virtuale con tanto di firma digitale.
Il problema è che fanno prima gli astronauti a dialogare con Huston, che un funzionario pubblico ad avvertire il grande mercato elettronico.
Intanto c’è un numero verde che trovarlo libero è come fare sei al superenalotto.
È un vero peccato che l’incolpevole colore sia stato sequestrato dalla mano pubblica, perché ormai nessuno più osa associarlo alla natura incontaminata o alla salute.
E poi per convincere il Mepa (Mercato elettronico della Pubblica amministrazione) che, metti, le matite sono più convenienti in bottega, occorre affrontare una tiritera al computer in grado di sfiancare un orso.
Se poi non c’è neppure la banda larga, basta un pomeriggio di altalenanti connessioni alla rete per giocarsi l’appartenenza di una vita al cattolicesimo.
Ma uno dei momenti in cui è parso più spontaneo cercare la telecamera di Scherzi a parte è stato durante le interviste a Renata Polverini e Goffredo Bettini.
Avversari politici ma ambedue accomunati dal mettere in guardia l’intervistatore a fare attenzione alle parole.
Alle parole?
L’azzurra Polverini, quella che doveva mandarli a casa lei i responsabili degli scandali alla Regione Lazio, si aggrappa al verbo “spacciare”, usato dall’inviato per domandare se una certa regola non sia stata spacciata per fare gli interessi di qualcuno. “Attenzione – dice piccata – io non ho mai spacciato e non sono una spacciatrice”.
Fantastica la replica della Gabanelli in studio: “Chissà come avrebbe reagito se le fosse stato chiesto come ammazza il tempo”.
Ma lo show di Bettini è senza rivali.
Avvicinato per sapere se fosse a conoscenza di essere stato finanziato da una di quelle ditte di pulizia ontologicamente basate sui principi non negoziabili, la rotonda eminenza Pd si stupisce che un giornalista di sinistra osi rivolgergli certe domande.
A dire il vero siamo noi gli stupiti ad assistere all’infastidita ostentazione di un’idea dell’informazione che è il perfetto calco di un modello salpato definitivamente dal porto della deontologia professionale: si faccia una domanda e si dia una risposta.
Per di più, idea proferita da chi ha dato sangue, diremo poco, per distinguersi qualitativamente da una certa cultura della conservazione.
Il tutto avviene in un contesto nel quale il palazzo Consip è impenetrabile come il Pentagono e nessuno si concede nemmeno se a fare domande è Babbo Natale. Mentre sembra che dentro le mura della Elsinore in versione buiaccara, lo scambio di visioni del mondo con venditori e piazzisti sia cosa più normale.
E pensare che, per dirne una, basterebbe rendere più facile agli uffici comprare altrove rispetto agli scaffali del mercato dematerializzato, se si dimostra che costa meno.
L’impressione è che per vincere questi mega appalti servano imprese con certe dimensioni in termini di dipendenti e strutture. Il rovescio della medaglia è che occorra continuare a fare appalti del genere per tenere in vita imprese con questi costi fissi, altrimenti è un guaio.
Ma allora l’obiettivo è ridurre la spesa pubblica o mantenere delle portaerei?
Per carità, a nessuno venga in mente di organizzare un seminario per approfondire la questione.

 

Perché “Pepito Sbazzeguti”

Pepito Sbazzeguti è l’anagramma di Giuseppe Bottazzi, alias Peppone, l’indimenticabile sindaco di Brescello in perenne rivalità con l’altrettanto indimenticato don Camillo nella celebre saga raccontata da Guareschi.
Il film nel quale il compagno sindaco, impersonato sullo schermo da un grande Gino Cervi, si cela dietro un anagramma è Don Camillo monsignore … ma non troppo del 1961 per la regia di Carmine Gallone.
Ma perché nascondersi? Peppone aveva ricorso a quello stratagemma, Pepito Sbazzeguti, per non far sapere in paese che aveva osato giocare al totocalcio.
Proprio lui dall’incrollabile, almeno nella retorica, fiducia nel sol dell’avvenire che sarebbe sorto sul genere umano con scientifica puntualità grazie all’ardore rivoluzionario delle masse, si affidava ai capricci della fortuna. Una variabile per giunta individualista e borghese in palese contrasto con il moto dialettico e collettivo della storia.
Ma non basta. Peppone infatti vince e vince tanto; dieci milioni per l’epoca è una bella somma. Per sua sventura l’astuto don Camillo scopre tutto e si trova in mano l’asso di bastoni. “Ecco fatto – gli dice con quel ghigno che solo Fernandel poteva plasticamente rappresentare – gratta il Pepone e troverai il Pepito”. Non pago, il ruvido reverendo nel consegnargli la valigetta con il tesoro insiste: “Ti tremano le mani”. “Eh, ma … non è mica un soldo”, gli risponde il sindaco sempre più confuso, che immediatamente pensa al modo migliore per investirli perché non perdano valore. Scartando l’ipotesi della terra, perché notoriamente deve andare ai contadini, e dell’oro, che gli verrebbe requisito allo scoccare della rivoluzione nel nome supremo del popolo, Peppone si lascia trascinare nel tranello di don Camillo: “Bisogna depositarli all’estero … In America forse …”. “Ah sì – cede per un attimo il sindaco – ma lasciamo perdere, non capisco più niente io”, taglia corto poi, consapevole che non può finire nelle braccia del nemico capitalista per antonomasia.
Pepito Sbazzeguti è il nome giusto per una rubrica che non ha la pretesa di avere capito tutto e di dare risposte in una realtà difficile e confusa. Peppone è ancora oggi il simbolo di una coscienza tirata da una parte dalla coerenza di principi e valori e, dall’altra, dall’interesse personale. Una situazione di incertezza e di dubbio che lo porta sulle soglie di un rossore che non ha più niente a che fare con l’ardore ideologico.
Potrebbe anche essere un buon viatico, verso l’umiltà del capire prima di giudicare ed un elogio della pazienza in un mondo che corre velocemente, anche se spesso non si sa esattamente dove. La pazienza di mettere insieme faticosamente gli elementi del dibattito e della realtà con libertà e possibilmente senza pregiudizi.
Questa rubrica nasce così, con questo intento.
(Francesco Lavezzi)

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

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