Con l’Unità se ne va un altro pezzo della bella politica
“Leggete e diffondete l’Unità”. Non un semplice slogan: quello racchiuso in un quadratino autopromozionale pubblicato qua e là a piè di colonna fra le pagine del quotidiano era un’esortazione e un vero comandamento per il militante del Pci, ateo per stereotipo, ma sorretto da un’incrollabile fede civile, quella comunista. Leggere: dunque conoscere, informarsi (per qualcuno magari pure indottrinarsi…). Diffondere: quindi divulgare, rendere partecipi, socializzare (o, per i più dogmatici, indottrinare)… Con l’Unità sottobraccio, la domenica mattina si girava strada per strada. E a casa delle persone (altri compagni, ma anche semplici simpatizzanti o potenziali elettori) non si portava unicamente il giornale, ma idee e passioni. Era una sorta di campagna elettorale permanente in formato amicale, ma anche l’occasione, attesa, per scambiare opinioni, ragionare di ciò che succedeva – nel mondo prima ancora che nella città o nel proprio quartiere – fornire spiegazioni e trasmettere motivazioni. Motivazioni per aderire al progetto, per indurre a partecipare con un impegno diretto e personale alla lotta per il cambiamento. Cambiare, questo era l’imperativo: “Cambiare si può, cambiare si deve, cambiare è necessario”, fu un fortunato slogan della propaganda comunista. Fortunato perché diretto ed efficace. E quando si diceva “cambiare”, non si intendeva spostare il ripetitore della telefonia o tappare una buca: quello veniva per ultimo. Prima c’era da cambiare il mondo, il resto, poi, di conseguenza. L’analisi procedeva sistematicamente dal generale al particolare: il mondo, appunto, le superpotenze, gli equilibri planetari, le sopraffazioni, le guerre, la fame, le ingiustizie; e poi, di seguito a stringere il cerchio, l’Europa, la necessità delle alleanze e di orizzonti più ampi, l’Italia, il malgoverno, la corruzione, le speranze di un futuro migliore e il dovere di impegnarsi per propiziarlo. E infine, noi: la nostra città, il nostro particolare. Poi, nella pratica, il pragmatismo induceva a ribaltare l’ordine di intervento e si procedeva sulla base della concretezza, affrontando e cercando di risolvere i problemi pratici e immediati, secondo una logica del fare che ha reso in molti momenti cruciali della nostra storia come pure nella quotidianità il Partito comunista in Italia anche un potente, prezioso e insostituibile motore di innovazione e buongoverno. La chiusura dell’Unità, giornale comunista fondato nel 1924 da Gramsci – il padre nobile del partito – oltre che un evento doloroso, simbolicamente rappresenta l’ennesimo episodio che attesta la fine di un certo modo di fare e concepire la politica nel nostro Paese: quello basato sull’incontro, il confronto, il dialogo, i rapporti umani, le idealità. Se ne va un altro pezzetto di un mondo in cui la politica non solo era praticata, ma vissuta con pienezza, come un’esperienza di vita intensa e coinvolgente che dava senso all’esistenza.

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Sergio Gessi
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)