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di Roberta Trucco


L’immagine della copertina del Times dedicata alla tolleranza zero del presidente Usa, con al centro una minuscola bimba in lacrime e sul lato un minaccioso e grande Trump, diventata il simbolo delle famiglie divise al confine con il Messico, e con la scritta “Benvenuti in America” è un’immagine potente che mi ha colpito nel profondo e fatto riflettere molto. Da subito ho pensato che ci sarebbe stata bene anche la frase “Benvenuti in occidente” e nelle nostre città italiane. Non solo per la tragica contraddizione che ci sta schiacciando: l’Occidente che si dovrebbe fondare sui diritti delle persone e dei più deboli fa i conti con la sua incapacità di assumersi la responsabilità di testimoniare quanto proclama. La riflessione potrebbe essere portata forse e soprattutto al fatto che anche all’interno stesso dell’Occidente questa dinamica di esclusione dei cittadini più piccoli, e di fatto di tutti quei cittadini che non sono capaci di cavarsela da soli, è una realtà viva e una strategia politica attuata da tempo.
Da diversi anni e a titolo volontario collaboro con il comune di Genova per dare voce e realizzare progetti per una città a misura di bambino. Nei giorni scorsi il professor Francesco Tonucci, espressamente invitato dal Sindaco Marco Bucci, ha presentato alla giunta cittadina il progetto internazionale del Cnr La città dei bambini (www.lacittadeibambini.org) nato a Fano nel maggio 1991.
“Rifiutando una interpretazione di tipo educativo o semplicemente di supporto ai bambini, il progetto – si legge sul sito – si è dato fin dall’inizio una motivazione politica: operare per una nuova filosofia di governo della città assumendo i bambini come parametri e come garanti delle necessità di tutti i cittadini. Negli ultimi decenni, anche a causa della scelta del cittadino adulto e produttivo come parametro di sviluppo e di cambiamento, la città ha perso le sue originarie caratteristiche di luogo di incontro e di scambio. Ha rinunciato agli spazi pubblici che dell’incontro e dello scambio erano condizioni essenziali lasciando che i cortili, i marciapiedi, le strade e le piazze assumessero sempre più funzioni legate all’auto e al commercio, sottraendole ai cittadini. Ha rifiutato la caratteristica di spazio condiviso e sistemico, nel quale ogni parte necessitava delle altre, per destinare spazi definiti a funzioni o ceti sociali diverse, costruendo così zone ghetto e zone privilegiate, svuotando i centri storici e dando vita alle moderne periferie. La città così modificata è diventata un ambiente malsano per la salute a causa dell’inquinamento atmosferico e acustico, brutto e pericoloso”.
La richiesta di mettere al centro della progettazione e delle scelte della città i bambini, considerandoli il paradigma sul quale fare scelte politiche e amministrative coraggiose, considerandoli l’altro, il diverso, e dunque anche un soggetto un po’ scomodo, ha fatto sorridere tutti. Come consuetudine mi sono sentita rispondere che Genova è una città difficile; che i problemi sono altri, sono le famiglie e le scuole, temi generici dove si può dire tutto e il contrario di tutto e del resto non competono all’amministrazione comunale; che i dati sul calo dei reati forniti dal Ministero portati dal professor Tonucci forse sono taroccati, senza ricevere alcun altro dato che giustificasse tale affermazione (dunque a Genova forse è pericoloso girare in libertà?). E ancora che le macchine sono un problema, ma non si sa dove metterle; che gli attraversamenti rialzati a Genova non si possono fare, il codice della strada non lo permette: peccato che il codice sia nazionale e altre città limitrofe a Genova li hanno, ma naturalmente chi ha fatto questa obiezione non lo sapeva neanche. E da ultimo: che i recinti per i bambini nei parchi sono comprensibili, alle specie in via di estinzione vanno riservati spazi speciali; che parlare di piazze per incontrarsi significa tornare al Medioevo.

Eppure ci sono gli esempi concreti di altre amministrazioni che, prendendo seriamente il progetto del Cnr, sono riuscite ad affrontare le enormi sfide che ci troviamo di fronte, a rivoluzionare le loro città inventandosi soluzioni incredibili, veramente innovative, e sono tornate ad essere luoghi umani.
Forse il problema è essersi trovati davanti per lo più a maschi che ci ascoltavano con sufficienza perché per loro la principale preoccupazione è come essere competitivi per racimolare più ricchezza, non importa come e a che prezzo, il resto resta sulle spalle del welfare casalingo e familiare: delle donne dunque. Intanto Genova è la città più vecchia come età anagrafica, abbiamo cittadini che muoiono perché i soccorsi non arrivano a causa di soste selvagge, abbiamo autobus progettati per maschi di media età, ginnici, che non prendono i mezzi, perché se no non arrivano al lavoro, tutti gli altri si adattino; e potrei proseguire per ore.
Se chi ci governa ha in mente solo sè stesso e il confronto con l’altro, il diverso – donna, bambino, vecchio, rifugiato – non ha spazio, non può essere un buon amministratore della cosa pubblica. I buoni amministratori non hanno bisogno di essere buoni manager, la città non deve essere per forza un’azienda competitiva, ma semmai un luogo dove le persone vivono in armonia e contribuiscono alla ricchezza, bellezza e alla funzionalità degli spazi comuni.
L’altra strategia politica porta solo alla sopravvivenza dei più forti che costruiscono la loro forza sulla schiavitù dei più deboli.

Che differenza c’è tra questi amministratori e Trump e la sua decisione di separare i bambini dalle famiglie e metterli in delle gabbie? E soprattutto noi con chi ci identifichiamo? Con i forti che per sopravvivere hanno bisogno di schiacciare tutti gli altri o con i deboli che cercano uno spazio a misura di bambino e dunque del futuro? Io sono madre di quattro figli e so da che parte sto, sicuramente a fianco della bambina di tre anni che piange disperatamente perché davanti a lei c’è un padre cattivo e disumano.

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Redazione di Periscopio



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