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Cipolline e sangue
Un racconto di Carlo Tassi

“Troppo zucchero in queste cipolline…” pensavo mentre le pescavo assieme ai pezzi di pomodoro e insalata. Fortuna che avevo a portata di mano del Barbera, fresco e secco al punto giusto. Quel tanto che bastava per spegnere la sgradevole sensazione di dolce quando invece ti aspetti un cibo salato.
Avevo fame, e le cipolline agrodolci all’aceto balsamico, troppo dolci e poco agre, non mi evitarono di vuotare l’intera terrina. Merito dei bicchieri di Barbera che m’aiutarono ad affogare quel sapore dolciastro rimasto nel palato. O forse fu proprio colpa del vino se, mentre mangiavo, mi dimenticai completamente di fare quella telefonata!

Passò un’ora poi squillò il cellulare. Dormivo seduto scomodamente, piegato in avanti con la faccia buttata dentro le braccia incrociate sulla tavola. Mi raddrizzai, come investito da una scossa elettrica, e afferrai il cellulare.
«Pronto»
«Dovevi chiamare un’ora fa», la voce era seccata.
«Cazzo è vero! Sono proprio uno stronzo. Scusa Boss» dissi.
Non avevo scuse, l’unica cosa che avrei dovuto fare era quella telefonata, nient’altro.
La voce continuò: «Ascolta. Ora dovrai rimediare andandoci di persona… E stavolta fai quello che ti ho detto, Non obbligarmi a venirti a cercare»
«T’assicuro che non volevo…», sentii riagganciare. Rimasi a fissare i rimasugli del mio pranzo e la bottiglia vuota di Barbera. «Fanculo!»
Mi alzai di scatto e andai a prendere la pistola, erano passati mesi dall’ultima volta che avevo dovuto usarla, controllai il caricatore, armai il carrello e misi la sicura. Mentre l’infilavo in tasca sperai intimamente che tutto ciò si rivelasse una precauzione eccessiva.
Indossai la giacca e uscii. Fuori il tempo era di merda come la situazione in cui m’ero cacciato. Ma ormai ero in ballo e dovevo andare fino in fondo. Quel giorno, se non fossi stato io il guaio di qualcuno, i guai sarebbero venuti a cercare me.
Sarebbe bastato telefonare all’ora stabilita e la mia parte sarebbe finita lì, invece avevo voluto fare il coglione ubriacandomi per colpa di una manciata di cipolline… Cazzo!

Il luogo era a cinque isolati dal mio palazzo e dovetti andarci in macchina. Guidavo stando attento a non beccare la polizia, non avevo nessuna voglia di finire nei guai quel giorno.
Non ho mai avuto un buon rapporto con gli sbirri. Si potrebbe dire che, di tutte le botte che ho preso in vita mia, molte ne avevo ricevute da solerti e permalosi agenti di polizia che non gradivano la mia vivace eloquenza riguardo a opinioni e commenti sulle abitudini delle loro mogli. Del resto, se per loro io ero un figlio di puttana, perché mai non dovevano accettare il fatto d’esser cornuti?
Ripeto, contrariamente a ciò che si dice sul mio conto, non sono mai stato un attaccabrighe, giuro. E chi ha sostenuto il contrario è un bugiardo in malafede!

Erano due anni che rigavo dritto.
Dieci anni di gattabuia mi son fatto per quella rissa col morto. E non l’ho nemmeno iniziata io…
Quello aveva tirato fuori un coltello ed io mi ero solo difeso. Se mi facevo accoppare si sarebbero tutti dispiaciuti per me. “Povera vittima” avrebbero detto, e intanto stavo due metri sottoterra!
Non era bastato prendergli il coltello, quello era fuori di testa e aveva afferrato un piede di porco con tutta l’intenzione di fracassarmi il cranio. Non era bastato nemmeno il grappolo di cazzotti in faccia che gli avevo tirato, niente, continuava ad avanzare schiumando sangue dalla bocca e roteando quella spranga su di me. Bestemmiava come un posseduto e mi fissava con gli occhi iniettati di sangue.
Poi il suo sguardo cambiò di colpo: dalla ferocia passò allo stupore. Si guardò il petto e vide il manico del suo coltello che spuntava, la lama no perché ce l’aveva piantata tutta dentro. Mi pare che stesse per dire qualcosa ma non fece in tempo, stramazzò a terra stecchito col cuore spaccato in due.
Anch’io non riuscii a dire nulla, forse ero stupito quanto lui, e di quel che successe immediatamente dopo ho un ricordo vago. Però ricordo molto bene l’arringa efficacissima dell’accusa qualche tempo dopo, al processo, e ricordo pure gli sguardi di disprezzo dei giurati puntati sul sottoscritto.
Confesso che, dopo dieci anni di galera scontati per intero, non sono affatto pentito d’aver cercato di salvarmi la pelle restituendogli il coltello in quel modo. Ciò che invece, da quella volta in poi, ho evitato come la peste è di scoparmi una donna sposata e vantarmene con uno sconosciuto incontrato in un pub senza prima essermi accertato che non si tratti del marito.

Fatto il primo incrocio, cominciò a piovere, ma a piovere di brutto!
La Pontiac scassatissima che mi aveva passato Boss, il mio capo, batteva in testa e, soprattutto, aveva il tergicristalli che funzionava a rilento. Sul parabrezza cadevano gocce che sembravano gavettoni e non si vedeva quasi nulla, tanto che mi misi a guidare a passo d’uomo.
Odiavo dover andare piano e il mio umore ne risentì parecchio, sbattevo i pugni sul volante e imprecavo contro quella dannata pioggia, ma alla fine arrivai all’indirizzo e fermai la macchina.
Restai in macchina per un po’ ad aspettare che l’acquazzone si placasse, così ne approfittai per ripassare la mia parte. Il tizio non mi aveva mai visto in faccia, quindi avrei dovuto presentarmi e spiegargli la faccenda. La prima volta, di solito, non serve far troppa paura, basta parlar chiaro e quasi sempre il tizio comprende la situazione e capisce che è meglio sganciare.
L’unica cosa che mi disturbava era che quel giorno non toccava a me fare il giro. Boss m’aveva detto di chiamare Grumo e dargli la dritta, perché quel giorno il giro avrebbe dovuto farlo lui.
Ma invece di chiamarlo m’ero messo a dormire e m’ero sognato di vomitare quelle cipolline di merda. Colpa di tutto quel vino che avevo bevuto naturalmente. E adesso avevo fatto incazzare Boss e per rimediare dovevo sbrigarmela da solo!
Boss era un buon capo, ma se facevi una cazzata, prima o poi, te la faceva pagare. Quel giorno la cazzata la feci io, quindi dovetti solo sperare di non pagarla troppo cara.

Dopotutto il lavoro non mi dispiaceva e, appena uscito di galera, Boss fu l’unico a darmi una possibilità mettendomi sul suo libro paga. Poi, delle tante attività di cui si occupava, la più onesta di tutte era certamente quella di allibratore e prestasoldi. Il mio ruolo era quello di addetto alla riscossione, e lo dividevo appunto con Grumo.
Grumo non era di certo un tipo particolarmente arguto, ma aveva un pugno assai pesante e quando serviva essere convincenti Boss voleva lui. Sapevo che questo era uno di quei casi.
Quel pomeriggio dovevo avvisarlo al posto del capo perché Boss era impegnato in una riunione importante. Dovevo dirgli dove andare a riscuotere, solo questo.

Tuttavia era inutile rimuginare oltre, la pioggia aveva perso intensità e uscii dalla Pontiac. Il luogo era deserto, non c’era nessuno in giro e in tutta la via c’era soltanto una Buick verde scuro parcheggiata proprio davanti a quella casa.
Attraversai la strada. Il posto era in una zona isolata di periferia e la casa, vista da fuori, sembrava una vera e propria catapecchia.
“Questo, tremila dollari non ce li ha di sicuro” pensai mentre mi dirigevo di corsa alla porta cercando di bagnarmi il meno possibile.
Quel giorno non avevo voglia di pestare nessuno, mi sentivo buono, ma sapevo anche che probabilmente non avrei avuto scelta, e la cosa mi metteva di malumore. Del resto il malumore poteva darmi un buon motivo per voler menare le mani. Sapevo che comunque fosse andata era solo lavoro, io ero pronto.

Quando fui davanti all’ingresso, m’accorsi che la porta era socchiusa. La spalancai del tutto ed entrai, la luce era accesa.
«Ehilà! È permesso?» dissi a voce alta. Nessuno rispose, così mi guardai attorno.
Se da fuori la casa sembrava un rudere, dentro era anche peggio: sporcizia e disordine dappertutto, pochi mobili disposti un po’ a caso, miseri e mezzi rotti, poi scatoloni accatastati e cianfrusaglie di ogni genere. Le luci al neon accese e l’assenza totale di finestre davano a tutto l’ambiente un’atmosfera insolita, claustrofobica, quasi irreale.
Ero sempre più convinto che sarebbe stato complicato incassare tremila dollari dal proprietario di quel posto.
«C’è nessuno in casa?» chiamai di nuovo. Più che una casa pareva il magazzino abbandonato di un rigattiere. Mi venne anche il sospetto che l’indirizzo non fosse quello giusto.
Ridiedi un’occhiata al foglietto che m’aveva dato Boss qualche giorno prima ed ebbi la conferma che la casa fosse proprio quella.
Però non c’era nessuno.
Forse il tizio, sapendo del mio arrivo, se l’era svignata. Pensai che quasi sicuramente fosse andata così.
Ma ormai ero lì, così decisi che sarebbe stato conveniente dare un’occhiata in giro, casomai si fosse solo nascosto sperando che me ne andassi. Se dopo la mia dormita pomeridiana fossi anche tornato da Boss a mani vuote come un fesso, di certo per me non sarebbe finita bene.

Ero entrato da nemmeno cinque minuti e già avrei voluto girare i tacchi e andarmene via. Mi trovavo in un corridoio che dall’ingresso terminava in una stretta scala col corrimano mezzo staccato e penzolante. Sulla destra tre porte spalancate collegavano il corridoio agli altri locali del pianterreno. Malgrado l’accumulo di cartoni e rottami, l’appartamento dava l’aria d’essere abbastanza ampio. Pensai subito che non sarebbe stato facile scovare un tizio nascosto là dentro, sempre che ci fosse stato qualcuno da scovare.
In più, qualora l’avessi trovato, era chiaro che avrei dovuto ricorrere alle maniere forti per convincerlo che non era più il caso di giocare a nascondino. Perciò dissi definitivamente addio ai miei propositi di pace.

Entrai in una stanza che doveva essere la cucina, anche se per cucinare c’era solo un piccolo fornello a gas sistemato in un angolo e seminascosto da una fila di cassette di legno e scatole di cartone. Al centro della cucina stava un tavolone su cui erano ammucchiati svariati attrezzi da manovale, poi, sparse un po’ dappertutto, diverse sedie impilabili, alcune di esse rovesciate.
Mi venne voglia di fumare. Presi il pacchetto di Winfield rosse che tenevo nel taschino della giacca, vi sfilai una sigaretta e me l’accesi. Quindi afferrai una sedia capovolta ai miei piedi per sedermi. Proprio nel farlo m’accorsi che sul pavimento c’erano diverse gocce, erano rosse, era sangue.
La sporcizia sul pavimento era tanta, e questo, in qualche modo, non mi aveva subito fatto notare quelle gocce. Ora però le avevo viste, e notai che ce n’erano parecchie e formavano un tracciato preciso che dal centro della cucina proseguiva nel corridoio. Anche se la cosa non mi piacque granché, non mi rimase altro da fare che seguire quelle tracce.
Al momento non riuscivo a farmi nessuna idea. Magari il tizio s’era ferito maneggiando qualcuno di quegli attrezzi sparsi sul tavolo. Magari era andato da qualche parte a farsi medicare. E magari, da qualche parte in quell’appartamento, aveva lasciato la busta con dentro i soldi che doveva a Boss. Magari sì e magari no.
Le gocce di sangue mi condussero fino alla rampa di scale che collegava il pian terreno al primo piano e al seminterrato. Vidi chiaramente che le gocce proseguivano lungo i gradini che portavano al piano superiore e mi decisi a salire. La frequenza delle gocce mi fece intuire che la ferita doveva essere una cosa seria. E mi chiesi pure come mai durante lo spostamento il tizio non l’avesse fasciata o comunque tamponata per evitare tutta quella perdita di sangue.
La verità era che non m’importava proprio nulla di cosa fosse successo. Se anche l’avessi trovato dissanguato e agonizzante l’unica cosa che contava era farmi dare quei cazzo di tremila dollari, poi poteva pure crepare per quel che mi riguardava. Il mio lavoro era quello, se avessi voluto aiutare il prossimo avrei fatto altro.

Giunsi in cima alle scale e mi trovai su un pianerottolo con due porte chiuse, le osservai e notai chiaramente che una di esse aveva la maniglia tutta insanguinata. Presi il fazzoletto dalla tasca, avvolsi la maniglia, aprii la porta ed entrai.
La stanza era buia, non si vedeva nulla, tastai con la mano in cerca dell’interruttore della luce che doveva trovarsi sulla parete di lato, lo trovai e l’accesi.
Quando la luce illuminò la stanza mi cadde la sigaretta dalla bocca.
Posso dire che in vita mia ne avevo viste di tutti i colori, ma quella volta il colore prevalente fu decisamente il rosso. Rosso sangue!
C’era un uomo riverso in un lago di sangue, era a faccia in giù e pensai subito che fosse il tizio dell’appartamento. Mi avvicinai, il tipo era decisamente morto. Aveva parecchi buchi sulla schiena, erano ferite da coltello, da esperto qual ero le riconobbi subito.
Mi chinai e lo girai per potergli vedere la faccia.
«Cazzo!» esclamai. Fu l’unica cosa che riuscii a dire prima di alzarmi di scatto e affrettarmi ad afferrare la pistola che avevo nella tasca dei pantaloni. Controllai che ci fosse il colpo in canna e tolsi la sicura, «Cazzo, cazzo, cazzo!» continuai a ripetere.
Potevo correre fuori da quel cesso di posto e salire sulla Pontiac per andare il più lontano possibile. Potevo prendere il cellulare e chiamare Boss per avvertirlo della piega che aveva preso tutta la faccenda. Potevo coprirmi le spalle con la mia Spartan calibro 45 e inveire e minacciare qualcuno che nemmeno vedevo.
L’uomo che era stato usato come un puntaspilli era Grumo!
Ma perché si trovava lì? Non doveva essere lì!
O meglio, sarebbe dovuto essere in quel posto se io gli avessi telefonato quando dovevo farlo, e in quel caso sarei stato io a non esser lì.
Quindi cos’era successo? C’era qualcosa che mi sfuggiva.
Imprecai in silenzio, mentre guardavo la strana smorfia di dolore impressa sulla faccia morta di Grumo. Grumo aveva un caratteraccio, era uno che menava duro ed era pure un po’ suonato. Ma era anche un tipo leale e per questo lo rispettavo. Quando doveva spezzare una gamba la spezzava senza pensarci due volte, però non ci provava nessun gusto, per lui era soltanto lavoro come per me. Sapevamo entrambi che potevamo pure fare una brutta fine prima o poi, erano gli incerti del mestiere. Certo non m’aspettavo di vederlo ridotto in quel modo, proprio per niente.
Cominciai a provare una gran rabbia.
«Dove sei bastardo?» esclamai. Mi convinsi che il pezzo di merda che aveva ammazzato Grumo fosse ancora lì, nascosto da qualche parte.
E chi poteva essere se non il tizio dei tremila dollari?
Dovevo trovarlo, e stavolta il debito che aveva con Boss era l’ultimo dei suoi problemi. Stavolta il debito ce l’aveva con me, e me l’avrebbe pagato con la sua pelle.

Iniziai a guardare ogni angolo della stanza senza sapere nemmeno di preciso cosa o chi cercare. Vidi il revolver di Grumo per terra di fianco al corpo e lo raccolsi, era insanguinato come tutto il resto e col fazzoletto lo ripulii alla meglio. Nel tamburo i proiettili c’erano ancora tutti, non aveva fatto in tempo a sparare nemmeno un colpo. Infilai il revolver nella tasca della giacca. Tutt’attorno c’era solo sangue, ce n’era sul pavimento e pure sulle pareti. Macchie, impronte e schizzi di sangue.
“Ma che cazzo è successo?” mi ripetevo, “È tutto di Grumo questo sangue? Possibile?”
Cominciai a sentirne l’odore e dovetti uscire dalla stanza per non vomitare.
Non mi aveva mai dato fastidio la vista del sangue, col mestiere che facevo sarebbe stato un bel problema, ma l’odore proprio non lo sopportavo. Da bambino accompagnavo mia nonna a fare la spesa, ma quando toccava entrare in macelleria per me era una sofferenza. I tranci di carne, le interiora esposte sul bancone e gli animali squartati e appesi ai ganci m’affascinavano. La cosa che mi opprimeva era il puzzo rancido: quel tremendo e soffocante odore di sangue stantio.

Ero appena uscito sul pianerottolo in cima alle scale quando mi suonò il cellulare. Lo estrassi dalla tasca e risposi. «Pronto», sul display non lessi nessun nome.
Rispose la voce del capo: «Roman»
«Boss»
«Sei arrivato dal tizio?»
«Sì»
«Quando hai finito lì, devi andare in un posto, sempre da quelle parti, per un’altra faccenda. Ho mandato Grumo lì a prenderti. Ti accompagnerà lui e ti spiegherà i dettagli…»
«Boss»
«Sì?»
«Quando sono arrivato, Grumo era già qua»
«E allora? Li ha incassati lui i soldi?»
«Boss, quando sono entrato in casa del tizio ho trovato Grumo in un lago di sangue… morto stecchito!»
«Morto? E il tizio?»
«Non l’ho trovato. Lo sto cercando, dev’essere ancora qui in casa, nascosto da qualche parte»
Boss rimase in silenzio, nemmeno io dissi niente, sapevo che stava pensando. Finalmente parlò: «Trovalo e ammazzalo. Poi fai sparire entrambi i corpi, mi raccomando. Quando hai finito vieni da me e mi racconti ogni cosa»
«Per i soldi?»
«Te li fai dare, trova tu il modo, poi l’ammazzi!»
«Ok Boss» dissi alla fine. Boss riattaccò, e comunque adesso, se non altro, sapevo cosa dovevo fare.

Entrai nella stanza a fianco, ero armato e incazzato. Avevo in mano una calibro 45 carica e stavolta non vedevo l’ora di usarla. Volevo trovarlo il tizio e, prima di poggiargli la canna sulla fronte e fargli saltare la testa, volevo guardarlo in faccia e chiedergli cosa cazzo aveva creduto di fare.
Trovare chi era stato capace di massacrare Grumo in quel modo, avendo infierito con decine e decine di coltellate, significava avere di fronte uno degno di fare la peggior fine. Quindi nessuna pietà.
Anche la seconda stanza era al buio, accesi la luce e rimasi di nuovo a bocca aperta. La scena era pressoché la stessa: sangue dappertutto! La differenza stava nel fatto che non c’era nessun cadavere.
Lì dentro l’odore del sangue era ancora più forte, così dovetti uscire immediatamente: stavolta rischiavo di vomitare sul serio.
M’appoggiai alla balaustra delle scale, ebbi un conato ma riuscii a ricacciare indietro i succhi gastrici. Mi bruciava la gola, ma non volevo dare nessuna soddisfazione al tizio nascosto da qualche parte, magari mi stava osservando. La rabbia era più forte dello schifo che provavo.
«Per non pagare tremila micragnosissimi dollari hai ammazzato il mio amico? Mi sa che hai fatto un vero sbaglio, Steven Corvino! Ti chiami così giusto? Comunque sono disposto a sentire cos’hai da dire. Vieni fuori e parliamone!» dissi ad alta voce. “Col cazzo! Prima ti faccio tirar fuori i soldi e poi ti scanno come un maiale!” pensavo in realtà.
Scesi le scale. Al primo piano, a parte il cadavere di Grumo e una quantità industriale di sangue, non c’era nient’altro. Quando fui di nuovo al pianterreno c’erano ancora due stanze da controllare, e pure il seminterrato.

Comunque, i conti non mi tornavano: era impossibile che tutto quel sangue appartenesse soltanto ad un corpo. Grumo era grande e grosso, ma non poteva aver inzaccherato completamente di sangue due ambienti grandi come quelli. Era pazzesco!
Poi mi venne in mente che, quando ero arrivato lì, avevo trovato la porta d’ingresso aperta. Iniziai a pensare che era improbabile che chi aveva provocato tutto quel macello non se ne fosse andato. Chi sarebbe tanto imbecille da restare e aspettare d’essere scoperto?
In quel momento, suonò di nuovo il cellulare.
«Sì Boss?»
«Roman, sei sempre in quella casa?»
«Sì. Lo sto ancora cercando, ma credo che se ne sia andato»
«Roman, ascolta bene! Ora alzi i tacchi e te ne vai da lì immediatamente!»
«Perché Boss? E Grumo?»
«Lascia perdere Grumo! Vattene da lì ti dico!»
«Ma…»
«Ascolta, è appena stato qui Mr. Corvino. Mi ha portato i tremila dollari di persona scusandosi per il ritardo. L’indirizzo che avevamo era sbagliato! Non ho proprio idea di che posto sia quello in cui ti trovi, perciò ora te ne vai via da lì! È chiaro?»
«Ok, chiaro!», sospirai, poi riposi il cellulare in tasca.
Ero frastornato. La mia testa cominciò a riempirsi di domande: In che razza di posto ero finito? Chi diavolo era stato ad accoppare il mio socio? E perché poi? In sostanza cosa cazzo era davvero successo lì dentro prima del mio arrivo?
Domande che probabilmente erano destinate a restare irrisolte, almeno per il momento.
Riflettei un attimo e conclusi che se mai ci fosse stato un ordine di Boss che avrei seguito molto volentieri, ebbene, quello di tagliare la corda lo era sicuramente!
«Fanculo a questo posto!» sussurrai mentre m’avviavo in tutta fretta verso l’uscita.

Arrivai alla porta d’ingresso e la trovai chiusa.
Non ricordavo di averla chiusa quando ero entrato, ma non ci feci caso finché non girai la maniglia per aprirla. La porta era chiusa a chiave.
Ebbi subito una sgradevole sensazione: la sensazione d’esser finito in trappola.
Ero bloccato all’interno di quella casa, con il cadavere dissanguato del mio socio al primo piano e il fastidioso sospetto che qualcuno si stesse divertendo a giocare al gatto e al topo col sottoscritto.
Sentii un rumore provenire dalle stanze che non avevo ancora controllato.
«Ok adesso basta! Esci fuori chiunque tu sia!» gridai. La rabbia aveva ceduto il passo all’incertezza. Incertezza che in breve tempo avrebbe significato timore di fare la stessa fine di Grumo.
Non era la prima volta che il mio lavoro m’aveva procurato una certa strizza. Ma quel giorno fu diverso. Era tutto molto strano, quasi assurdo.
Spesso avevo avuto a che fare con avversari più grossi di me, tipi veramente cattivi e con le peggiori intenzioni. Ma alla fine ero sempre riuscito a cavarmela, più o meno.
Questa volta sentivo che la situazione era diversa. Mi trovavo in balìa di qualcosa di molto più grande di me, qualcosa di ignoto che non potevo controllare. E questo mi fece agitare.
«Vieni fuori stronzo! Dai finiamola qui. Fatti vedere!» continuai a gridare.
Per quanto sbraitassi, nessuno rispose e tantomeno comparve. Non che m’aspettassi che succedesse qualcosa del genere, sapevo che sarei dovuto andare a stanarlo io. Probabilmente sentire il suono della mia voce mi dava coraggio, ecco tutto.

La paura può avere due effetti: o diventi aggressivo o ti abbandoni alla più completa sottomissione.
La mia reazione fu di affrontare la cosa di petto. Forse, se non avessi iniziato a temere seriamente per la mia pelle, magari sarei stato meno avventato. O forse no.
La verità è che stavo iniziando ad avere una paura fottuta. E la cosa m’infastidiva e m’innervosiva.

Nella pistola avevo otto colpi più uno in canna, e avevo un caricatore in tasca con altri otto colpi. Poi avevo pure il revolver di Grumo con sei proiettili calibro 357 magnum. Pensai che se lo stronzo fosse sbucato fuori per saltarmi addosso l’avrei ridotto a un colabrodo. Ripresi coraggio e mi diressi verso l’ala dell’appartamento che non avevo ancora guardato.
Cercai di restare calmo e lucido, vista la situazione fu veramente difficile ma ci provai. Dovevo allertare tutti i sensi, ogni piccolo rumore e ogni minimo movimento percepiti con un attimo di ritardo potevano risultare fatali.
Poi mi venne un altro dubbio: e se di stronzi in agguato ce ne fossero stati più di uno? Mi bloccai su quella domanda, poi, quasi subito, mi convinsi che così non poteva essere.
Conclusi che se fossero stati più di uno, sarebbero già usciti fuori per fottermi. Doveva essere da solo, e non usciva allo scoperto perché aveva più strizza di me. Era l’unica spiegazione.

Attigua alla porta della cucina c’era un’altra porta che dava a una stanza lunga e stretta, doveva essere una specie di ripostiglio. Avanzai lentamente e controllai ogni angolo del locale.
Tenevo la pistola vicina al petto con la canna puntata in avanti, avevo il dito sul grilletto pronto a sparare all’istante. Lì dentro c’era di tutto: sacchi, cartoni, cassette, stracci, rottami. Ma soprattutto sacchi, sacchi di soda caustica in granuli.

«Grumo non s’aspettava la tua accoglienza, è per questo che sei riuscito a fotterlo. Con me sarà diverso, credimi, stavolta sarai tu a crepare!» dissi ad alta voce, convinto che il tizio mi stesse ascoltando nascosto lì vicino. Tentavo di provocarlo, speravo in una sua reazione, un suo passo falso. Ormai era una guerra di nervi, io e lui.
Il problema era che oltre a me sembrava non esserci proprio nessun altro.
Trovarlo e accopparlo era l’unica soluzione: avrei vendicato Grumo ed eliminato una minaccia mortale per me stesso, inoltre ero sicuro che avesse con sé le chiavi della porta d’ingresso. Quella dannata porta era blindata e tentare di sfondarla era da escludere. Perciò non avevo altra scelta.
Trovarlo e accopparlo era senza dubbio l’unico modo per andarmene da quel posto di merda.

Uscii dal ripostiglio, era rimasta l’ultima stanza. Entrai, lo vidi e sparai immediatamente!
Due colpi secchi dritti in faccia. E lo specchio sulla parete di fronte andò in mille pezzi. Avevo centrato la mia immagine riflessa.
«Fanculo!» bisbigliai, più che mai in preda all’agitazione.
Quello era il bagno e del tizio non c’era traccia. Provai a calmarmi. Prima d’uscire guardai distrattamente la vasca da bagno e notai qualcosa che m’incuriosì. M’avvicinai e osservai il fondo della vasca, c’era una poltiglia scura che emanava un forte odore di candeggina o peggio. Poi guardai meglio…
Ciò che vidi mi fece quasi cadere all’indietro.
«Cristo santo!» esclamai, «Ma che… che posto è questo?»
Dalla poltiglia emergeva quel poco che restava di un piede umano. Probabilmente la poltiglia era tutto ciò che rimaneva di un uomo.

«Quindi ti diverti a sciogliere i tuoi ospiti. È a questo che ti serve tutta quella soda che tieni nel ripostiglio» gridai, «Volevi fare la stessa cosa con Grumo e me?»
Mi sforzai in una rumorosa risata, tanto rumorosa quanto falsa. Volevo sembrare tutt’altro che turbato, in realtà lo ero più di quanto non fossi mai stato. Quel posto aveva tutta l’aria d’essere il covo di un maniaco, ed io mi sentivo sempre più come un agnello capitato nella tana di un lupo.
“Un agnello molto incazzato con una calibro 45 pronta a sparare” mi dissi per riguadagnare coraggio. A proposito della pistola: la tenevo così stretta e così da tanto che non sentivo più le dita. Dovetti passarla nell’altra mano, anche se questo mi tolse un po’ di sicurezza.
Ora mi trovavo di nuovo nel corridoio, aprivo e chiudevo le dita della mano buona per riattivare la circolazione. Era evidente che al pianterreno oltre a me non c’era nessuno.
Rimaneva il seminterrato.

Impugnai la pistola di nuovo con la mano destra e scesi le scale.
«Eccomi, sto arrivando. Sei al capolinea stronzo!» gridai.
Mentre scendevo subito avvertii uno strano odore, come di cavoli marci. In realtà di strano non aveva nulla, conoscevo bene quell’odore: era puzza di cadavere.
Più scendevo più la puzza aumentava.
Arrivai in fondo alla scala dove trovai una piccola anticamera illuminata anch’essa da un neon. L’aria era quasi irrespirabile e dovetti tapparmi il naso col fazzoletto.
Respiravo a fatica. M’aggiustai il calcio della pistola nel palmo in modo da sentirla un tutt’uno con la mano e m’accorsi che, nonostante stessi sudando, avevo le dita gelide.
Davanti a me c’era una porta socchiusa.
Avevo i nervi a fior di pelle. Puntavo la Spartan verso la porta, la mano destra mi tremava, così cercai di mantenere l’arma ferma usando anche l’altra mano. Ero pronto a sparare, qualunque cosa avessi visto muoversi l’avrei riempita di piombo.
Spalancai la porta con un calcio. La stanza era avvolta dall’oscurità.
«Sono arrivato! Fatti vedere figlio di puttana!» gridai.
Quasi senza volere mi partirono due colpi. Il rumore degli spari rimbombò nel seminterrato lasciando intuire un grande spazio vuoto oltre il buio della stanza.

Ero sulla porta ma l’oscurità che avevo davanti a me mi bloccava. Guardai l’unico pannello che stava sulla parete dell’anticamera: c’erano numerosi interruttori, erano tutti posizionati sull’on mentre uno solo era sull’off.
Lo girai e subito, nella stanza buia, si accesero una dopo l’altra diverse luci al neon poste sul soffitto.
Un fremito scosse tutto il mio corpo fino alle ossa, pensai d’essere capitato all’inferno.

La stanza era ampia e tutta rivestita di piastrelle bianche, al centro c’erano due lunghi tavoloni fatti completamente d’acciaio come il resto degli arredi: diversi scaffali, un cassettone e probabilmente due congelatori.
Sul soffitto, oltre ai neon, era installato un grosso argano elettrico che scorreva su una guida d’acciaio che ricopriva il locale per tutta la sua lunghezza. Dall’argano pendevano tre robuste catene che terminavano con altrettanti ganci. Sugli scaffali erano allineati numerosi contenitori di vetro, mentre sul ripiano del cassettone erano sparsi, mescolati tutti assieme, strumenti da chirurgo e arnesi da macellaio.
Il tutto condito di cadaveri e pezzi di cadaveri!

La prima cosa che feci fu di vomitare. Non cercai di trattenermi, rigettai tutto ciò che avevo nello stomaco, comprese quelle maledette cipolline. Quando mi fui svuotato completamente mi sentii anche peggio: le gambe mi tremavano ed ero in preda al terrore.
Disgusto, angoscia e smarrimento. Non riuscivo più a fingere nessuna sicurezza, non riuscii a dire niente.
Camminavo in quella che poteva assomigliare a una specie di sala operatoria, oppure al retrobottega di una macelleria. In realtà quel posto era semplicemente una camera degli orrori.
Ovunque mi girassi vedevo cose indicibili: ai ganci delle catene erano infilzati tre corpi nudi squartati e privati della testa, due di essi erano maschi mentre il terzo era di una donna. Alla mia sinistra, sistemati l’uno sull’altro, due grandi sacchi neri da cui fuoriuscivano rivoli di liquame scuro. Erano proprio quei sacchi la principale fonte di quella puzza tremenda. Nei contenitori di vetro sopra gli scaffali si distinguevano delle mani, dei cervelli e dei membri maschili, tutti immersi in un liquido giallo, probabilmente formaldeide. Sui tavoli, infine, altri due cadaveri distesi, uno dei quali era stato dissezionato e poi ricomposto. L’unica parte mancante era la testa.
L’altro cadavere sembrava tutto intero, un telo ripiegato gli copriva la faccia…

Alla fine, a parte tutto quello scempio, l’unica cosa evidente fu che del maniaco non c’era traccia nemmeno lì, e in qualche modo ne fui sollevato. Anche se, dopo quello che avevo visto, la cosa non poté bastare a rendermi tranquillo.
In verità non ero più in grado di controllare la mia paura. Entrare in quel posto aveva demolito ogni mia residua sicurezza, avvertivo che l’essere armato non era più sufficiente.
Se fossi riuscito a fuggire da lì, me ne sarei andato il più lontano possibile, avrei cambiato città e mestiere.
Fanculo Boss e fanculo il recupero crediti. Avrei fatto finalmente un lavoro onesto, dove non avrei dovuto picchiare più nessuno.
Boss. L’unica cosa che mi restava da fare era chiamarlo e chiedergli aiuto, non avrei voluto ma era l’unica cosa da fare.
Estrassi il cellulare dalla tasca e…
All’improvviso sentii un rumore dietro di me. Mi voltai di scatto e feci per sparare ma mi bloccai subito.

Un gatto sbucato dal nulla faceva le fusa e annusava la chiazza di liquame nauseabondo che colava dai sacchi. Era un gattone nero bello grosso, aveva due grandi occhi gialli, spalancati con le pupille ridotte a due linee sottilissime. Mi fissava senza apparente timore.
Mi chinai e allungai una mano per accarezzarlo, lui non si ritrasse e mentre gli grattavo la testa aumentò le fusa. I gatti erano la mia passione e vederne uno, in qualche modo, mi fece rilassare.

Ero alle prese col micio quando avvertii un altro rumore alle mie spalle, un fruscìo quasi impercettibile.
Quasi immediatamente provai una specie di scossa elettrica su un fianco e subito una serie di fitte lancinanti alla schiena. Mi girai su me stesso e sparai all’impazzata.
Cinque colpi senza colpire nessuno e svuotai il caricatore. Dovevo recuperare l’altro caricatore che avevo in tasca ma non avevo più forza nelle braccia. Mi cadde la pistola, avevo la vista annebbiata e mi girava la testa. La stanza oscillava e facevo sempre più fatica a respirare.
Mi toccai la schiena col dorso della mano, stranamente non sentivo quasi nessun dolore. Però m’accorsi che ero tutto bagnato, guardai la mano: era lorda di sangue. Poi guardai in basso: c’erano gocce di sangue.
Ai miei piedi c’era già una piccola pozza di sangue, e stavolta il sangue era mio.

Mi vennero in mente tutte le gocce di sangue che mi avevano condotto da Grumo. “Ora tocca a me” pensai.
Ero sempre più debole, talmente debole che mi reggevo in piedi a malapena. Lentamente m’accorsi di non tremare più, mi dimenticai persino di avere paura. Per non stramazzare a terra, m’appoggiai ad uno dei due tavoloni con sopra i cadaveri, e mi resi conto che su quel tavolo il cadavere non c’era più.
Era quello col telo sulla faccia, ma non c’era più.

Mi venne da ridere, e stavolta non fu per finta. «Bastardo figlio di puttana m’hai fregato. Sei stato in gamba!» sussurrai col poco fiato che m’era rimasto.

Un uomo completamente nudo era dritto in piedi davanti a me, aveva in braccio il gatto e lo stava accarezzando. Io avevo la vista sempre più annebbiata e non riuscii a distinguere i tratti del suo volto.
«Il micio e tuo? Anch’io amo i gatti…» fu l’ultima cazzata che riuscii a dire prima di stramazzare a terra.

I pensieri s’affievolivano come il respiro e ogni altra cosa.
In bocca m’era rimasto il gusto delle cipolline e del sangue. Cipolline al sangue. “Che schifo di pranzo. L’avessi saputo che era l’ultimo, mi sarei scelto qualcosa di meglio” pensai.

Poi, la luce al neon si spense per sempre.

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it