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SEGUE. Nel 2014, nel G20 Australiano, si pianificò di far entrare nel mercato del lavoro 100 milioni di donne in 10 anni, attraverso la piattaforma creata dal gruppo di lavoro Women20.
Secondo l’ISTAT, nel 2015 – per rimettere in linea l’Italia con il resto d’Europa – sarebbero dovute entrare nel mondo del lavoro 2,7 milioni di lavoratrici, il che avrebbe portato un beneficio al Pil italiano del 7%. In realtà, siamo davvero lontani dalla meta.

Il Gender Equality Index elaborato dall’Eige (l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere) ha piazzato l’Italia al 69° posto nella classifica mondiale per la parità di genere: secondo lo studio, in Italia “la struttura economica, l’organizzazione del lavoro, gli stereotipi di genere sono strettamente correlati a quanto lavoro di cura ci si aspetta che venga svolto dalle donne nelle case, al tipo di welfare a cui hanno accesso e alle possibilità che hanno di entrare nel mercato del lavoro”.

Secondo i dati Eurostat le donne italiane dedicano alle responsabilità familiari più tempo di tutte le altre donne europee: ben 5 ore e 20 minuti al giorno. In Svezia, dove l’occupazione femminile è il top d’Europa, sono a 73 minuti. Se consideriamo il part-time maschile come un indicatore della partecipazione degli uomini al lavoro domestico i dati vengono confermati: quello italiano è uno dei più bassi d’Europa, l’8,4% contro il 7,8% in Francia, il 10,8% in Germania, il 13,1% in Uk e il 15,1% in Svezia.
Su questa situazione incidono la bassissima copertura dei servizi per la prima infanzia (al 13,5%) e le politiche di austerity, che hanno tagliato servizi come il tempo pieno nelle scuole primarie e i servizi di assistenza domiciliare ad anziani e ammalati.
Nel 2015 erano ben 2,3 milioni le donne che risultavano inattive per motivi di famiglia, di queste il 40% ha un diploma di scuola superiore o una laurea e il 18% lavorerebbe se i servizi fossero adeguati.
In questo contesto la maternità rappresenta ancora un rischio concreto di fuoriuscita dal mercato del lavoro: sempre dai dati Istat si nota che il 22,4% delle madri impiegate prima della gravidanza, intervistate dopo due anni, avevano perso il lavoro.

Eppure le donne italiane ottengono risultati migliori degli uomini nello studio, come afferma il rapporto Almalaurea: nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni, il 30% delle donne ha un una laurea contro il 18% degli uomini. “Questo vantaggio non si riflette però nel mercato del lavoro: gli stereotipi di genere influenzano le scelte di carriera delle donne, che tendono a preferire materie (letteratura, insegnamento, linguistica, geografia, chimica-farmaceutica, legge, architettura) in cui c’è troppa offerta rispetto alla domanda, specialmente se comparate con le materie tecnico-scientifiche in cui si registra una netta prevalenza maschile. Il risultato – spiega il report Almalaurea 2015 – è che a cinque anni dalla laurea hanno trovato lavoro l’88% dei laureati e solo il 63,5% delle laureate e gli uomini guadagnano 1556 euro contro i 1192 delle donne”.

Il “Gender Pay Gap” – la differenza di retribuzione fra uomo e donna – la maggiore esposizione al “part time involontario” e alla precarietà rendono il mondo del lavoro ancora più ostico a quante riescono a inseririsi nel mondo del lavoro. In questo ambito, inoltre, viene comunque promosso un modello di leadership per cui avere una carriera significa essere presenti “sempre e comunque”. L’Istat ha riportato in proposito che circa il 40% delle donne che si considera ‘adeguata’ a ricoprire un ruolo apicale, sostiene che sia il modello dominante di leadership l’ostacolo principale alla sua stessa carriera.

Per quanto riguarda le donne migranti, una su due lavora nelle famiglie italiane fornendo servizi di cura: rappresentano l’80% della forza lavoro del settore ma, nonostante questo, sono maggiormente sottoposte a sfruttamento, irregolarità dei contratti e precarietà.
Con l’ingresso della legge sulle ‘quote rosa’ nei consigli di amministrazione (che impone di avere almeno il 20% di donne nei consigli di amministrazione delle società pubbliche e private) i dati sono migliorati: il rapporto Consob 2015 ha contato un 27,3% di donne nei consigli di amministrazione, anche se solo il 5% sono amministratori delegati e nessuna donna è amministratore delegato di aziende quotate. Qualche sedia rosa in più si conta anche in politica: nell’attuale governo le ministre sono il 41% e sia alla Camera sia al Senato le donne registrano un inedito 31% di presenze.

Come vivono le donne ‘normali’ il rapporto fra gli impegni di lavoro, le cure domestiche e gli impegni familiari? Abbiamo somministrato un semplice questionario a un piccolissimo campione composto da 62 donne residenti a Ferrara, fra i 27 e i 51 anni per indagare sull’argomento. Il 79% delle intervistate ha un titolo di studio universitario e un lavoro dipendente, che le porta a trascorrere fuori casa in media 9 ore. Il 64% è sposata o convivente e il 42% ha uno o più figli.

La totalità delle intervistate ha dichiarato che nell’organigramma aziendale o delle istituzioni nelle quali lavorano la posizione più alta relativa al loro campo di impiego è occupato da uomini, che i colleghi maschi hanno benefit che non hanno le colleghe con pari responsabilità e che gli stessi sono più disposti a lavorare per più ore, se necessario, ma sono meno disponibili per le attività di formazione e coordinamento aziendale.
Il 96% delle intervistate ha dichiarato che nella gestione di casa e famiglia l’impegno in media è così diviso: 70% alle donne e il 30% agli uomini, che si occupano prevalentemente dell’auto e di accompagnare i figli in attività sportive o ricreative. La quasi totalità delle intervistate ritiene che la gestione della vita sociale della famiglia sia a loro carico.

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Ingrid Veneroso

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