Ho la sensazione che, sempre più spesso, le persone che iniziano un discorso preoccupandosi di specificare: “Non sono razzista ma…” usino questa premessa come fosse una maschera con la quale tentare di camuffare inutilmente, a se stessi e agli altri, la propria ormai evidente condizione di persona che ritiene di appartenere a una presunta razza superiore. Spesso infatti, dopo quella premessa, il discorso si limita a una o più accuse contro le persone straniere che rientrano nella categoria ‘racism for dummies’, cioè quella delle frasi fatte che non è importante controllare se siano vere o meno, basta che siano semplici ed efficaci (rubano il lavoro e la casa ai nostri giovani, non pagano i mezzi pubblici, sono tutti delinquenti, portano malattie, ci stanno invadendo, ricevono 35 euro al giorno, e simili).
La mia ipotesi sarà anche psicologia da strapazzo ma, che sia colpa dell’ignoranza dilagante o dell’inumano che avanza, la percentuale di discorsi di questo tipo sta aumentando in misura direttamente proporzionale al modo in cui certi personaggi, aiutati da certi giornali e da certe televisioni, cavalcano i problemi legati all’immigrazione e alla convivenza per crearsi, attraverso l’invenzione della figura del ‘nemico’, una propria identità personale e un proprio consenso politico a fini elettorali. Questa estate italiana è stata caratterizzata, a livello sia locale sia nazionale, da moltissimi (troppi) fenomeni che possono essere classificati come manifestazioni di odio xenofobo e razzista. Ce ne sono stati di vari tipi e qui ne ricordo solo alcuni fra i più rappresentativi: una persona di origini brasiliane a cui è stato negato il lavoro in un albergo di Cervia; una ragazza che non è stata assunta a Torino perché fidanzata con un ragazzo nigeriano; una quindicenne di Verona esclusa dal concorso ‘Canta Verona Festival’ perché, nonostante fosse nata in Italia, ha origine ghanesi; una coppia di coniugi italo cubani a cui è stata rifiutata una casa vacanze in Sardegna per la quale avevano già versato la caparra.
In questi casi le brave persone italiane coinvolte si sono premurate di difendersi pronunciando la frase “Non sono razzista ma…” prima di una serie di motivazione talmente deboli da far vergognare qualsiasi persona di buon senso. In questi altri casi invece le persone coinvolte non hanno avuto bisogno di pronunciare la frase-maschera perché il loro razzismo è in fase conclamata: una ragazza africana incinta picchiata e insultata a Rimini; la scritta ‘vietato l’ingresso ai negri’ firmata da una svastica in un parco giochi di Milano; un ragazzo bengalese di cittadinanza italiana picchiato perché destinatario di un alloggio popolare; le intimidazioni a un parroco che aveva accompagnato in piscina alcuni ragazzi profughi gambiani, nigeriani e senegalesi. Sotto quale voce classificare poi certe dichiarazioni di importanti politici? Anche in questo caso ne ricordo solo qualcuna: “Lo stupro è più odioso se è commesso da un profugo” (Debora Serracchiani, presidente della regione Friuli Venezia Giulia), “Aiutiamoli a casa loro” (Matteo Renzi, segretario Pd), “Sostegno alle mamme per continuare la razza italiana” (Patrizia Prestipino, Direzione Pd), “Alcune ong ideologicamente pensano solo a salvare vite umane: noi non possiamo permettercelo!” (Stefano Esposito, senatore Pd). E ancora come catalogare la scelta antiumanitaria fatta dal nostro governo con il codice Minniti? E quella di chi voleva alzare le tasse a chi ospita migranti nel proprio Comune (Alice Zanardi, Sindaca di Codigoro)? In questa sede non elenco i numerosi episodi in cui si sono distinti esponenti di Forza Nuova o della Lega Nord sia perché sarebbero davvero troppi, ma anche perché questi personaggi non hanno bisogno di nascondersi con la frase-maschera di cui sopra: sono dichiaratamente fascisti e razzisti e in questo momento, pur riconoscendo questo come un pericolo sociale, credo con Simone Veil “che il vero male non sia il male, ma la mescolanza del bene e del male”.
Per tutti questi episodi ma non solo, in questo momento, sono fortemente preoccupato per la piega disumana che sta prendendo il nostro Paese. Considero tutto questo una regressione e, da maestro elementare, mi chiedo: gli odierni razzisti come si immaginano la scuola? Sostengo da sempre che la scuola sia lo specchio della società. Pertanto deduco che, se il razzismo dilagante si basa su una società di esclusioni e di espulsioni, la scuola razzista sarà fatta di muri e di barriere; se la società razzista è quella delle differenze da separare, la scuola razzista sarà composta di classi diverse a seconda del sesso, della razza, della lingua, della religione, delle condizioni personali e sociali; se la società razzista è quella della superiorità di una razza verso le altre, la scuola razzista sarà quella dei buoni e dei cattivi, del ‘noi’ e del ‘loro’, degli italiani e dei nemici; se la società razzista è quella dove ci sono esseri umani più importanti di altri, la scuola razzista non considererà la vita degli altri come un valore. A questo punto non sono poi così sicuro che i razzisti desiderino una scuola davvero razzista, perché prima o poi capiranno che ciascuno di noi sarà sempre lo straniero di qualcun altro.
Per combattere questa ignoranza, questo odio e questi pregiudizi straripanti, fra le altre cose, ci sarebbe bisogno di una scuola che insegni ad ascoltare le ragioni dell’altro, a parlare insieme, a discutere con criterio, a studiare con cura, a spiegare correttamente, a capire i punti di vista diversi dal proprio, ad affrontare i problemi, a conoscere la condizione umana, ad imparare l’identità terrestre. Una scuola che riesca a far capire che una società diversa, migliore è possibile. Lo so, qualcuno potrebbe scambiare i miei pensieri per discorsi demagogici, ma io sono un educatore e in quanto tale sono idealista, ottimista, utopista e, nel mio caso, addirittura inter(nazional)ista; per questo credo occorra investire e scommettere sull’educazione cioè spiegare, far capire e mostrare le qualità e le potenzialità che ci sono nelle persone. Credo che serva camminare verso l’orizzonte di un’utopia concreta o, per concludere con il grande pedagogista Alain Goussot, penso ci sia bisogno di “fare della scuola il luogo dell’utopia pedagogica dove è possibile vivere e sperimentare quello che la società sembra non offrire e non permettere: fare vivere ad ogni alunno, a prescindere delle proprie particolarità, la possibilità di accedere alla propria umanità e al suo aspetto più nobile, la capacità di pensare e di sentire che l’altro diverso da sé è anche simile.
Pensata in questi termini la pedagogia fa dell’educazione e dell’istruzione un processo di emancipazione e liberazione umana che si oppone a ogni forma di reificazione e di disumanizzazione; la pedagogia aperta alle esperienze vive degli alunni crea gli spazi dell’utopia concreta che forma dei cittadini consapevoli e soggetti attivi della comunità e del suo funzionamento democratico”. In questo modo, attraverso la conoscenza e l’esperienza, la scuola potrà essere vissuta come un laboratorio di cittadinanza attiva e ciascuno potrà sperimentare direttamente la ricchezza che può essere regalata dall’incontro con l’altro.
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Mauro Presini
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