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Se guardo dalla mia finestra vedo l’orto di Mina incolto. Mina aveva novant’anni ed è morta di Covid-19 quest’inverno. Come tante persone anziane, purtroppo.
In questo orto incolto c’è qualcosa di triste, il ricordo di chi lo coltivava con attenzione e saggezza, ma c’è anche il fascino del cambiamento. La riappropriazione da parte della natura di uno spazio che per un po’ è stato prestato all’uomo.
L’erba sta crescendo, veloce, robusta, indifferente alle avversità climatiche, allo smog delle macchine che passano sulla strada vicina e all’antipatia degli uomini.

Ho visto un documentario sulla città di Černobyl, nel suo stato desolato e selvaggio attuale. E’ l’amplificazione dell’orto di Mina.

Il disastro di Černobyl  è avvenuto il 26 aprile 1986 alle ore 1:23:45 del mattino, presso la centrale nucleare V.I.Lenin situata in Ucraina settentrionale. È stata la più grave sciagura mai verificatasi in centrali di quel tipo. Secondo Greenpeace sono sei milioni i decessi avvenuti negli ultimi trent’anni che dipendono da quel disastro e, contando tutti i tipi di tumori riconducibili all’esplosione del reattore numero quattro della centrale, si arriva ad un numero di persone ammalate o morte impressionante.  Il reattore era di tipo RBMK-1000 un reattore a canali, moderato a grafite e refrigerato ad acqua.

Ciò che fa impressione guardando il documentario è vedere la Černobyl odierna piena di erba, rovi e alberi. Dove prima c’erano case, strade, scuole, centri ricreativi, aziende agricole, ore ci sono i rovi. Enormi, scuri, pungenti. Fanno impressione tanto sono grandi. Amplificano a dismisura il senso di abbandono. Sottolineano una sconfitta umana nei confronti della natura che si è ripresa i suoi spazi, nei confronti di tutto ciò che i nostri simili erano riusciti a fare in quel posto e che adesso non esiste più. Le case sono state abbandonate in seguito all’evacuazione della città e mai più riabitate. Si vedono mobili, piatti, bicchieri, giochi di bambini lasciati improvvisamente per un allontanamento tanto improvviso, quanto definitivo. Ora quei bambini, se sono sopravvissuti, hanno tra i quaranta e i cinquant’anni, chissà cosa ricordano di allora. Chissà se qualcuno si è davvero ripreso e ora sta bene. I bambini hanno sempre grandi risorse, qualcuno ce l’avrà sicuramente fatta.

Riguardo l’orto di Mina che sembra una piccola Černobyl, stanno crescendo i rovi.

Penso che trovarsi di fronte a tali evidenze, potenti nel loro potere evocatorio e anche nella loro forma e colore, aiuti a uscire da alcuni schemi mentali e da molti pregiudizi.  Permetta di vedere le cose con occhi nuovi. Sia Černobyl che l’orto di Mina sono, se si dimentica la tragedia che li ha generati e ci si focalizza semplicemente sul presente, affascinanti. La natura che riconquista i suoi spazi a scapito dell’uomo è travolgente. Ha una forza disumana. Si vede  la prepotenza della vegetazione che perfora il cemento, sbucano fiori sul catrame. Dai finestrini delle macchine parcheggiate a Černobyl in quella triste notte e là rimaste per sempre, crescono le stelle alpine, piccolo e inconsapevole tributo ai tanti morti.
Dalla rete dell’orto di Mina escono le dalie gialle che le piacevano tanto. Sono sopravvissute in mezzo ai rovi.

La natura sa essere selvaggia, aggressiva, incontrollata, primordiale. Lei c’era nella preistoria quando le prime scimmie si sono innamorate, quando il primo uomo ha acceso il fuoco, ha cacciato e costruito capanne. Lei c’era quando i Romani hanno conquistato un impero, quando gli Unni l’hanno invaso, quando è caduto il muro di Berlino. Lei c’era sempre.
E’ fortissima, accompagna la nostra vita, la permette e la sovrasta. Senza vegetazione non ci sarebbe ossigeno e quindi vita. Se si pensa a questo, si guarda tutto con occhi diversi, si trovano interessanti i rovi. Bisogna provare, cercare con convinzione una visione che si esaurisce nel presente, scevra dall’origine del paesaggio desolante, una rappresentazione che abbraccia il mondo vegetale per quello che è, senza addomesticamento alcuno e allora si vede la forza della vegetazione in movimento.
Ciò che resta dopo il disastro umano è spesso questa natura che non risparmia nessuno, aggredisce e porta via. Scava nei tombini, fa scoppiare le fondamenta, si aggroviglia sui tetti delle case e toglie le tegole. Vegetazione ovunque che non conosce paura. Una natura che riprende i suoi spazi.
Aggressiva e libera.
Va dove vuole, fa quello che vuole, con determinazione e senso di rivalsa. In questo c’è del fascino, si riscopre la sua vera forza e la sua longevità. E’ molto  più vecchia di noi, ne sa più di noi, ci soppravviverà, deciderà del nostro futuro.
Una natura che affronta una seconda genesi e che galoppa, mangia il cemento, si mescola a terra e fango, riapre gli scoli per l’acqua, reindirizza la pioggia.  Scoppia forte il fascino per ciò che nessun’uomo controlla, si vede perfettamente quanto siamo piccoli e mortali.
Riguardo l’orto di Mina e ripenso a Černobyl. Questi due drammi si mescolano sulle lenti dei miei occhiali, nel mio cuore di bambina allora, di adulta adesso. Vedo tante foglie e qualche gatto randagio che vive bene anche lì.

Oggi nella zona di Černobyl vivono circa centoquaranta persone. Sono tornate a vivere là. Un po’ per necessità un po’ per recuperare le proprie radici. Dicono che là si sta benissimo, che la vegetazione è ovunque e questo permette una vita molto piacevole. Si sono innamorati di quel posto che è diventato selvaggio. Tra gli alberi, le fogli e i ruderi delle vecchie case si è insediata di nuovo la vita umana. In quel posto c’è il fascino del passato spezzato e di un nuovo corso dell’esistere che illumina tutto.
E’ rinato un mondo con la sua voglia di evolvere, è rinato un senso di appartenenza che abbraccia ambiente e alberi, umanizzandoli, rendendoli una creazione della gente  più delle case rotte e dei ricordi di ciò che è sbagliato e perduto, più della tragedia e di tanti errori umani. Di mattina rispunta il sole tra le foglie degli alberi di Černobyl. Brilla la luce, quasi acceca. Anche sull’erba dell’orto di Mina spunta il sole tutte le mattine e in questo c’è comunque la gioia di una novità che piace, c’è un calore che ritrova la via dell’inizio e dello stupore.

Sono qui e guardo quell’orto incolto cercando di cambiare prospettiva, cercando  di  inquadrare il mondo e la vita in maniera diversa.  I disastri lasciano degli insegnamenti che posso istruire. I fiori nati sul cemento sono stupefacenti e fortissimi, sono coloratissimi e impossibili. Sanno abbagliare. Guardo l’orto di Mina e mi sembra di essere a Černobyl, di camminare in quel posto semi abbandonato, pieno di vegetazione rinata, pieno di morte passata e di vita presente. Mi sembra proprio di essere là. E allora mi siedo per terra sotto un albero, raccolgo una scodella abbandonata lì il giorno della tragedia,  vedo da vicino quello che di grandioso sa fare la natura e mi sorprendo a pensare che per tutti c’è una seconda possibilità, che il mondo sa regalare sia traguardi che nuove partenze, che saremo vivi  finchè ci sarà ossigeno. Saremo vivi grazie anche ai rovi.

Mi rialzo, mi risiedo e poi mi rialzo e mi risiedo e mi rialzo, non riesco ad andarmene da quella visione che è un po’ immaginata e un po’ reale, un po’ visionaria e un po’ suggestiva. Sul modo in cui la natura accompagna la nostra vita e se ne riprende con prepotenza dei pezzetti, c’è da riflette, molto da scrivere.  Nasce un papavero sul cemento.

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Costanza Del Re

E’ una scrittrice lombarda che racconta della vita della sua famiglia e della gente del suo paese, facendo viaggi avanti e indietro nel tempo. Con la Costanza piccola e lei stessa novantenne, si vive la storia di un’epoca con le sue infinite contraddizioni, i suoi drammi ma anche con le sue gioie e straordinarie scoperte.


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